venerdì 28 settembre 2018

Cortazar, Casa occupata


Julio Cortàzar

Casa occupata1
(da Bestiario -1951-)

Ci piaceva la casa perché oltre ad essere spaziosa ed antica (ora che le case antiche soccombono alla più vantaggiosa liquidazione dei loro materiali) conservava i ricordi dei nostri bisavoli, del nonno paterno, dei nostri genitori e di tutta la nostra infanzia.
Ci abituammo, Irene ed io, a persistervi da soli, cosa che era una pazzia perché in quella casa potevano vivere otto persone senza darsi fastidio. Facevamo le pulizie il mattino, alzandoci alle sette, e intorno alle undici lasciavo ad Irene le ultime camere da spolverare per andare in cucina. Pranzavamo a mezzogiorno, sempre puntuali; non restava molto da sbrigare, tranne pochi piatti sporchi. Era piacevole pranzare pensando alla casa profonda e silenziosa, e a come bastassimo noi soli a mantenerla pulita. A volte arrivammo a credere che fosse lei a impedire che ci sposassimo. Irene rifiutò due pretendenti senza seri motivi, e a me mori Maria Esther prima che decidessimo di fidanzarci ufficialmente. Ci affacciammo alla quarantina con l’inespressa convinzione che il nostro semplice e silenzioso matrimonio di fratelli fosse la necessaria conclusione della genealogia fondata dai bisavoli nel la nostra casa. Un giorno saremmo morti là, cugini improbabili e schivi avrebbero ereditato la casa e l’avrebbero rasa al suolo per arricchirsi con il terreno e i mattoni; o meglio, noi stessi l’avremmo abbattuta come giustizieri prima che fosse troppo tardi.
Irene era una ragazza nata per non dare noia a nessuno. Tolte le attività del mattino trascorreva la giornata facendo lavori a maglia sul sofà in camera sua. Non so perché sferruzzasse tanto, io credo che i lavori a maglia siano per le donne il grande pretesto per non fare niente. Irene non era cosi, faceva sempre cose necessarie, golfini per l’inverno, calze per me, liseuses2 e scialli per lei. Qualche volta lavorava uno scialle e poi lo disfaceva in un momento perché qualcosa non le piaceva; era divertente vedere nel cestino il mucchio di lana increspata che si rifiutava di perdere la forma presa poche ore prima. Il sabato ero io che andavo in centro a comperarle la lana; Irene si fidava del mio gusto, era contenta dei colori e non dovetti mai restituire alcuna matassa. Profittavo di queste uscite per fare un giro nelle librerie e domandare inutilmente se c’erano novità di letteratura francese. Dal 1939 non arrivava niente di importante in Argentina.
Ma è della casa che m’interessa parlare, della casa e di Irene, perché io non conto. Mi domando che cosa avrebbe fatto Irene senza i lavori a maglia. Si può rileggere un libro, ma quando un pullover è finito non si può ripeterlo impunemente. Un giorno trovai l’ultimo cassetto del comò in legno di canfora pieno di scialletti bianchi, verdi, lilla. Erano in naftalina, impilati come in una merceria; non ebbi il coraggio di domandare a Irene cosa pensasse di farne. Non avevamo bisogno di guadagnarci da vivere, tutti i mesi arrivavano i soldi dalla campagna e il denaro aumentava. Ma Irene si svagava solo con i lavori a maglia, dimostrava una abilità meravigliosa e a me fuggivano le ore guardandole le mani simili a ricci argentei, ferri in su e in giù, e uno o due cestini a terra dove si agitavano costantemente i gomitoli. Era bello.

Come potrei dimenticare la distribuzione della casa. La stanza da pranzo, una sala con arazzi, la biblioteca e tre grandi camere da letto rimanevano nella parte più interna, quella che guarda su Rodriguez Peña. Solo un corridoio con la sua massiccia porta di rovere isolava quella parte dell’ala frontale dove si trovavano un bagno, la cucina, le nostre camere da letto e il living centrale, con il quale comunicavano le due camere da letto e il corridoio. Si entrava in casa attraversando un atrio con maioliche, e la porta finestra dava sul living. Di modo che si entrava nell’atrio, si apriva la porta finestra e si passava nel living; sui due lati le porte delle nostre camere da letto, e di fronte il corridoio che conduceva nella parte più interna; continuando per il corridoio si oltrepassava la porta di rovere e più oltre cominciava l’altro lato della casa, oppure si poteva girare a sinistra proprio davanti alla porta e proseguire per un corridoio più stretto che portava in cucina e in bagno. Quando la porta era aperta ci si accorgeva subito che la casa era molto grande; altrimenti dava l’impressione di uno di quegli appartamenti che si costruiscono adesso, fatti per muoversi appena; Irene ed io vivevamo sempre in questa parte della casa, quasi mai oltrepassavamo la porta di rovere, salvo per fare le pulizie, perché è incredibile quanta polvere si accumuli sui mobili. Buenos Aires sarà una città pulita, ma lo deve ai suoi abitanti e non ad altro. C’è troppa terra nell’aria, appena soffia un po’ di vento si palpa la polvere sui marmi delle consolle e fra i rombi dei centrini di macramè3; è una vera fatica toglierla bene con il piumino, vola e resta sospesa in aria, un momento dopo si deposita di nuovo sui mobili e sui ripiani.

Lo ricorderò sempre con precisione perché fu semplice e senza inutili particolari. Irene stava lavorando a maglia in camera sua, erano le otto di sera e all’improvviso mi venne in mente di mettere sul fuoco il bricco del mate. Mi avviai passando per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere, e stavo svoltando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca. Il suono arrivava indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto o un soffocato sussurro di conversazione. Lo udii anche, nello stesso momento o un secondo più tardi, in fondo al tratto di corridoio che andava da quelle stanze alla porta. Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi, la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo; fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte ed inoltre feci scorrere il grande chiavistello per maggior sicurezza.
Andai in cucina, scaldai il bricco, e quando fui di ritorno con il vassoio del mate dissi a Irene:
-Ho dovuto chiudere la porta del corridoio. Hanno occupato la parte in fondo.
Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi.
-Ne sei sicuro?
Annuii.
-Allora, - disse raccogliendo i ferri, - dovremo vivere da questo lato.
Io preparavo il mate con molta cura, ma lei tardò un istante a riprendere il suo lavoro. Ricordo che stava facendo uno scialle grigio; mi piaceva quello scialle.

I primi giorni ci sembrò penoso perché entrambi avevamo lasciato nella parte occupata molte cose che amavamo. I miei libri di letteratura francese, per esempio, erano tutti nella biblioteca. Irene sentiva la mancanza di certe tovagliette, di un paio di pantofole che le tenevano tanto caldo in inverno. Io rimpiangevo la mia pipa di ginepro e credo che Irene pensasse a una bottiglia di Esperidina4 ormai antica. Frequentemente (ma questo accadde solo nei primi giorni) chiudevamo qualche cassetto dei comò e ci guardavamo con tristezza.
-Qui non c’è.
Ed era una cosa in più oltre tutto quel che avevamo perduto nell’altra parte della casa.
Ma ne fummo anche avvantaggiati. Le pulizie furono talmente semplificate che anche alzandoci tardissimo, alle nove e mezzo per esempio, non erano ancora suonate le undici che già ce ne stavamo con le mani in mano. Irene si abituò a venire con me in cucina e ad aiutarmi a preparare il pranzo. Ci pensammo bene, e così decidemmo: mentre io preparavo il pranzo, Irene avrebbe cucinato piatti da mangiare freddi la sera. Ce ne rallegrammo perché è sempre seccante dover abbandonare le proprie camere sul far della sera e mettersi a cucinare. Adesso ci bastava la tavola in camera di Irene e i piatti freddi.
Irene era contenta perché le restava più tempo per lavorare a maglia. Io mi sentivo un po’ smarrito senza i libri, ma per non rattristare mia sorella presi a sfogliare la collezione di francobolli di papà, e questo mi servì ad ammazzare il tempo. Ci divertivamo molto, ciascuno occupato nelle cose sue, quasi sempre riuniti nella camera di Irene che era più comoda. A volte Irene diceva:
-Guarda il punto che mi è venuto. Non ti sembra il disegno di un trifoglio?
Un momento dopo ero io che le mettevo sotto gli occhi un quadratino di carta affinché ammirasse il valore di un francobollo di Eupen-et-Malmédy5. Stavamo bene, e a poco a poco cominciavamo a non pensare. Si può vivere senza pensare.

(Quando Irene sognava ad alta voce io mi svegliavo subito. Non mi sono mai potuto abituare a quella voce da statua o da pappagallo, voce che viene dai sogni e non dalla gola. Irene diceva che i miei sogni erano fatti di grandi scossoni che qualche volta facevano cadere la coperta. Le nostre camere da letto erano divise dal living, ma di notte si sentiva tutto nella casa. Ci sentivamo respirare, tossire, presentivamo il gesto che conduce all’interruttore della lampadina, le mutue e frequenti insonnie.
(A parte questo, tutto era silenzioso nella casa. Di giorno solo i rumori domestici, lo sfregare metallico dei ferri da maglia, uno scricchiolio nel voltare le pagine dell’album filatelico. La porta di rovere, credo di averlo già detto, era massiccia. Nella cucina e nel bagno, che erano contigui alla parte occupata, ci mettevamo a parlare a voce più alta oppure Irene cantava qualche ninna-nanna. In una cucina c’è troppo rumore di stoviglie e bicchieri perché altri suoni vi irrompano. Quasi mai permettevamo che là sopravvenisse il silenzio, ma quando tornavamo alle camere da letto e al living, allora la casa si faceva silenziosa e in penombra, e noi camminavamo persino più piano per non darci noia a vicenda. Credo fosse per questa ragione che di notte, quando Irene cominciava a sognare ad alta voce, io mi svegliavo subito).
È quasi come ripetere la stessa cosa, salvo le conseguenze. Di notte mi viene sete, e prima di andare a letto dissi a Irene che andavo in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Dalla porta della camera da letto (lei lavorava a maglia) udii un rumore in cucina; forse nella cucina o forse nel bagno perché il gomito del corridoio spegneva i suoni. Irene fu colpita dal modo brusco con cui mi fermai, e venne accanto a me senza dire una parola. Restammo ad ascoltare i rumori, notando distintamente che provenivano da questa parte della porta di rovere, nella cucina e nel bagno, o nello stesso corridoio, dove incominciava il gomito quasi al nostro fianco.
Non ci guardammo neppure. Strinsi il braccio di Irene e la feci correre con me fino alla porta finestra, senza voltarci indietro. I rumori si udivano sempre più forti ma sempre sordi, alle nostre spalle. Chiusi d’un colpo la porta e restammo nell’atrio. Ora non si udiva nulla.
-Hanno occupato questa parte, - disse Irene. Il lavoro a maglia le pendeva dalle mani e i fili arrivavano fino alla porta e vi si perdevano sotto. Quando vide che i gomitoli erano rimasti dall’altra parte, lasciò cadere il lavoro senza guardarlo.
-Hai avuto tempo di portare via qualcosa? - le domandai inutilmente.
-No, niente.
Restavamo con quel che avevamo indosso. Mi ricordai dei quindicimila pesos nell’armadio della mia camera da letto. Troppo tardi ormai.
Poiché mi era rimasto l’orologio da polso, vidi che erano le undici di sera. Cinsi con un braccio la vita di Irene (credo che lei stesse piangendo) e uscimmo in strada. Prima che ci allontanassimo ebbi pietà, chiusi bene la porta d’entrata e gettai la chiave nel tombino. Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e di entrare in casa, a quell’ora e con la casa occupata.

1 il racconto è ambientato a Buenos Aires
2 liseuse: parola francese che indica un indumento femminile costituito da una leggera mantellina di maglia che si indossa in casa
3 macramè: pizzo ottenuto con una serie di nodi
4 Esperidina: liquido estratto dalla buccia degli agrumi, usato come antiossidante
5 Eupen-et-Malmédy: regione, ora belga, contesa fra la Germania e il Belgio tra le due guerre mondiali. I francobolli emessi durante le amministrazioni provvisorie sono particolarmente apprezzati dai filatelici.





Cortazar, Continuità dei parchi


Julio Cortàzar

Continuità dei parchi
(da Fine del gioco -1956-)


Aveva incominciato a leggere il romanzo alcuni giorni prima. Lo abbandonò per affari urgenti, tornò ad aprirlo mentre rientrava in treno al podere; si lasciava interessare lentamente dalla trama, dal disegno dei personaggi. Quella sera, dopo aver scritto una lettera al suo procuratore e aver discusso con il fattore una questione di mezzadria, tornò al libro nella tranquillità dello studio che si apriva sul parco di roveri. Sdraiato nella poltrona preferita, dando le spalle alla porta che lo avrebbe infastidito come una irritante possibilità d’intrusioni, lasciò che la mano sinistra carezzasse più volte il velluto verde e si mise a leggere gli ultimi capitoli. La sua memoria riteneva senza sforzo il nome e le immagini dei protagonisti; l’illusione romanzesca lo conquistò quasi subito. Godeva del piacere quasi perverso di staccarsi di riga in riga da ciò che lo attorniava, e di sentire al tempo stesso che la testa riposava comodamente sul velluto dell’alto schienale, che le sigarette erano sempre a portata di mano, che al di là delle vetrate danzava l’aria del crepuscolo sotto i roveri. Di parola in parola, assorto nel sordido dilemma degli eroi, lasciandosi andare verso le immagini che si componevano e acquistavano colore e movimento, fu testimone dell’ultimo incontro nella capanna del bosco. Prima entrava la donna, guardinga; adesso arrivava l’amante, la faccia ferita dalle sferzate di un ramo. Ammirevolmente lei tamponava il sangue con i suoi baci, ma lui rifiutava le carezze, non era venuto per ripetere le cerimonie di una passione segreta, protetta da un mondo di foglie secche e di sentieri furtivi. Il pugnale si intiepidiva contro il suo petto, e sotto pulsava acquattata la libertà. Un dialogo ansioso scorreva per le pagine come un ruscello di serpi, e si sentiva che tutto era già deciso da sempre. Persino quelle carezze che avviluppavano il corpo dell’amante quasi volessero trattenerlo e dissuaderlo, disegnavano abominevolmente la figura di un altro corpo che era necessario distruggere. Niente era stato dimenticato: alibi, circostanze, possibili errori. A partire da quell’ora, a ciascun istante era minuziosamente fissato il suo impiego. Il duplice spietato riepilogo si interrompeva appena per permettere che una mano carezzasse una gota. Cominciava a scendere la notte.
Senza neppure più guardarsi, legati strettamente al compito che li aspettava, si separarono sulla porta della capanna. Lei doveva proseguire per il sentiero che andava vergo nord. Dal sentiero opposto lui si voltò un istante per vederla correre con i capelli sciolti. Corse anche lui, proteggendosi contro gli alberi e le siepi finché distinse nella bruma malva del crepuscolo il viale che conduceva alla casa. I cani non dovevano latrare, e non latrarono. Il fattore non doveva esserci a quell’ora, e non c’era. Salì i tre scalini del porticato ed entrò. Dal sangue che gli galoppava nelle orecchie gli giungevano le parole della donna: prima una sala turchina, poi una galleria, una scala con tappeto. Al piano superiore, due porte. Nessuno nella prima camera, nessuno nella seconda. La porta del salotto, e allora il pugnale in mano, la luce delle vetrate, l’alto schienale di una poltrona di velluto verde, la testa dell’uomo nella poltrona che sta leggendo un romanzo.


Materiali per la riscrittura - 1CA (settembre 2018)


Riscrivi le seguenti frasi


(Correggi la punteggiatura, l’ortografia e il lessico e riscrivi la frase modificando le parti sottolineate –ma non solo!- nella forma e nelle scelte lessicali, dividendo le frasi troppo lunghe e cercando di renderle chiare e scorrevoli)



Ha anche molti difetti come il soffermarsi troppo su alcune vicende, l’essere un po’ troppo lungo per me, l’essere un po’ confusionale.
(lessico; semplifica)


Inoltre la fantasia di XXX gli permette di inserire nel brano, o comunque nella storia, tipi di tecnologie, attrezzi ed altri elementi altamente “fuori dal tempo”, inadatti al tempo dell’autore.
(semplifica; lessico)


Al giorno d’oggi i teenagers si credono invincibili e credono che la felicità gli sia dovuta.
(uso del pronome)


Il finale mi ha deluso, dal momento che, non conclude le vicende del protagonista.
(punteggiatura)


Sadako è una bambina di quattro anni che insieme a suo fratello sono i protagonisti del libro.
(concordanza)


Inoltre, questa citazione, rispecchia molto il mio carattere.
(punteggiatura)


Questo libro con parole semplici è riuscito a stupirmi, mi sono quasi sentito preso in caso.
(lessico, connettivo)


Ma tu, riusciresti comunque ad andare avanti.
(punteggiatura)




venerdì 21 settembre 2018

Maupassant, Due amici


Guy de Maupassant


DUE AMICI

Parigi era bloccata, affamata, agonizzante. Sui tetti i passeri eran sempre più rari, le fogne si spopolavano. Si mangiava qualsiasi cosa1.
In un chiaro mattino di gennaio, mentre camminava tristemente lungo il boulevard2 esterno, le mani nelle tasche dei pantaloni della sua uniforme e la pancia vuota, il signor Morissot, orologiaio di professione e uomo pacifico a tempo perso, si fermò di colpo davanti a un collega ed amico. Era il signor Sauvage, una conoscenza fatta andando a pescare.
Prima della guerra, ogni domenica Morissot partiva all'alba, con una canna di bambù in mano e una cassetta di latta sulla schiena. Saliva sul treno di Argenteuil, discendeva a Colombes, poi arrivava a piedi all'isola Marante. Appena giunto nel luogo dei suoi sogni, si metteva a pescare; e pescava fino a notte.
Là ogni domenica incontrava un uomo grassottello e allegro, il signor Sauvage, merciaio in via Nótre Dame de Lorette, anche lui fanatico pescatore. Trascorrevano spesso una mezza giornata l'uno accanto all'altro, con la lenza in mano, i piedi penzoloni sulla corrente; e avevano stretto amicizia. Certi giorni, non dicevano una parola. Qualche volta chiacchieravano; ma si capivano a meraviglia anche senza dir nulla, perché c'era tra loro una perfetta affinità di gusti e identità di sensazioni.
Nelle mattine di primavera, verso le dieci, quando il sole ringiovanito faceva ondeggiare sul fiume tranquillo quella nebbiolina che scorre con l'acqua, rovesciava sulla schiena dei due pescatori accaniti un buon calore di stagione novella, Morissot diceva qualche volta al suo vicino: «Ehi, che bellezza!»
E il signor Sauvage rispondeva: «Per me non c'è niente di meglio». Questo bastava per capirsi e stimarsi.
In autunno, al tramonto, quando il cielo si tingeva di rosso sangue e proiettava nell'acqua sagome di nubi rossastre, imporporava tutto il fiume, accendeva l'orizzonte, gettava riflessi rossi di fuoco sui due amici, e indorava gli alberi già fulvi e frementi d'un brivido invernale, il signor Sauvage sorridente guardava Morissot e diceva: «Che spettacolo!»
E Morissot incantato rispondeva, senza staccare gli occhi dalla sua lenza: «E’ meglio del Boulevard, non è vero?»
Ora, appena si riconobbero, si strinsero calorosamente la mano, commossi di trovarsi in circostanze così diverse. Il signor Sauvage con un gran sospiro esclamò: «Ne sono successe di cose».
Morissot, tutto malinconico, si lamentò: «E che tempo! E’ questo il primo bel giorno dell'anno.»
Infatti il cielo era tutto azzurro e luminoso. Presero a camminare fianco a fianco, tristi e pensosi. Morissot riprese: «E la pesca? Eh! Che bel ricordo!»
«Quando mai ci torneremo?» domandò il signor Sauvage.
Entrarono in un caffè e bevvero insieme un assenzio3; poi ripresero a camminare sul marciapiede. Morissot si fermò a un tratto: «Un altro bicchiere, eh?» Il signor Sauvage annuì. «A vostra disposizione» disse.
Ed entrarono in un altro negozio di vini. Uscendo di là, erano parecchio intontiti, turbati, come chi a digiuno si riempie lo stomaco d'alcool.
Era bello. Una brezza carezzevole solleticava loro il viso. L'aria tiepida finì di ubriacare il signor Sauvage, il quale si fermò sui due piedi e disse: «Se ci andassimo?»
«Dove?»
«Diamine, alla pesca.»
«Ma dove?»
«Eh, alla nostra isola. Gli avamposti francesi sono presso Colombes. Io conosco il colonnello Dumoulin; ci lascerà passare facilmente.»
Morissot fremette di desiderio: «Ma sì. Io ci sto.» E si separarono per andare a prendere i loro arnesi.
Un'ora dopo, camminavano fianco a fianco lungo la strada maestra. Raggiunsero presto la villa occupata dal colonnello. Egli sorrise alla loro richiesta e accondiscese a quel capriccio. Si rimisero quindi in cammino, provvisti d'un salvacondotto4. In breve oltrepassarono gli avamposti, attraversarono Colombes deserta, e si trovarono sul margine dei filari di vigne che discendono verso la Senna. Erano circa le undici.
Di fronte, il villaggio d'Argenteuil sembrava morto. Le alture d’Orgemont e di Sannois dominavano tutto il paese. La grande pianura che si stende fino a Nanterre era deserta, completamente deserta, con i suoi ciliegi spogli e la terra grigia. Il signor Sauvage, additando le cime, mormorò: «I Prussiani sono lassù!» E l'inquietudine paralizzava i due amici davanti a quel paesaggio deserto.
I Prussiani!
Essi non ne avevano mai visti, ma avvertivano da mesi la loro presenza intorno a Parigi: mandavano in rovina la Francia, saccheggiavano, massacravano, affamavano; invisibili e onnipotenti. E una specie di terrore superstizioso si aggiungeva all'odio che nutrivano per quel popolo sconosciuto e vincitore. Morissot balbettò: «Eh! Se dovessimo incontrarli?»
II signor Sauvage rispose con quella arguzia5 parigina che, malgrado tutto, fa sempre capolino: «Potremmo offrir loro una buona frittura di pesce.»
Ma esitavano ad avventurarsi nella campagna, intimiditi dal silenzio che regnava su tutto. Finalmente il signor Sauvage si decise: «Su, avanti! Ma con precauzione.» E discesero in un vigneto, carponi, piano piano strisciando, nascondendosi dietro i cespugli, con l'occhio inquieto, l'orecchio teso.
Non restava da attraversare che un pezzo di terra allo scoperto per giungere in riva al fiume. Si misero a correre; e, appena raggiunsero l'argine, si accovacciarono tra le canne secche. Morissot incollò la guancia per terra per ascoltare se qualcuno camminava nei paraggi. Non udì nulla, erano proprio soli, del tutto soli. Si fecero animo e cominciarono a pescare.
Di fronte l'isola Marante, deserta, li nascondeva all'altra riva. La casetta del ristorante era chiusa, pareva abbandonata da anni. Il signor Sauvage prese il primo ghiozzo6, Morissot il secondo; e a ogni momento sollevavano le loro lenze con una bestiolina argentea guizzante in fondo al filo: una vera pesca miracolosa.
Introducevano delicatamente i pesci in una bisaccia a rete dalle maglie strettissime immersa nell'acqua ai loro piedi. E li invadeva una gioia deliziosa, quella gioia che si prova nel gustare un piacere amato di cui si è privi da tanto tempo. Il sole riversava un benefico calore sulle loro spalle; non udivano più nulla; non pensavano più a nulla; ignoravano tutto il resto del mondo; pescavano.
Ma d'improvviso un rumor sordo che sembrava venire da sottoterra fece tremare il suolo. Il cannone tornava a tuonare.
Morissot volse  il  capo al di sopra dell'argine, vide laggiù a sinistra la  grande  sagoma del Mont-Valerien che aveva sulla cima un pennacchio bianco, uno sbuffo di polvere appena spuntato. Subito un secondo getto di fumo partì dalla sommità della fortezza, e dopo qualche minuto echeggiò una nuova detonazione. Poi seguirono altri rimbombi e di tratto in tratto la montagna lanciava il suo alito di morte, soffiava i suoi vapori lattiginosi che si alzavano lentamente nel cielo calmo, formando una nube sopra di essa. Il signor Sauvage scrollò le spalle. «Ecco che tornan da capo» disse.
Morissot, che non perdeva di vista i movimenti dell'esca, fu assalito a un tratto da una collera d'uomo pacifico contro quegli arrabbiati che si battevan in tal modo, e borbottò: «Bisogna essere stupidi per ammazzarsi così.»
«Sono peggio delle bestie» riprese il signor Sauvage.
«E dire» continuò Morissot che aveva appena preso un'arborella6 «che succederà sempre cosi finché ci saranno i governi…»
«La Repubblica» lo interruppe il signor Sauvage «non avrebbe dichiarato la guerra…»
«Ah, già» disse Morissot «coi re si ha la guerra fuori, e con la Repubblica si ha la guerra dentro.» E tranquillamente si misero a discutere, risolvendo i grandi problemi politici col buon senso d'uomini buoni e limitati, per finire d'accordo su un punto, che non ci sarà mai libertà. Intanto Mont-Valerien tuonava senza tregua, demolendo a colpi di cannone case francesi, annientando vite umane, massacrando uomini, distruggendo tanti sogni, tante gioie attese, tante felicità sperate, aprendo in cuori di donne, in cuori di ragazze, in cuori di madri, laggiù, in altri paesi, dolori indimenticabili.
«E’ la vita» disse Sauvage.
«Dite piuttosto che è la morte» riprese ridendo Morissot.
Ma trasalirono atterriti sentendo qualcuno camminare dietro di loro; e, girando gli occhi, videro, in piedi alle loro spalle, quattro uomini, quattro uomini alti, armati e barbuti, vestiti come domestici in livrea coi loro berretti schiacciati, che puntavano verso di loro le canne dei fucili. Le due lenze sfuggirono dalle mani dei due amici e vennero trascinate dalla corrente. In un attimo furono presi, legati, portati via, gettati in una barca e condotti sull'isola. E dietro la casa che avevano creduto abbandonata, scorsero una trentina di soldati tedeschi.
Una specie di gigante irsuto e peloso, che fumava una gran pipa di porcellana a cavalcioni d'una sedia, domandò loro in perfetto francese: «Ebbene, signori, avete fatto buona pesca?» Allora un soldato depose ai piedi dell'ufficiale la bisaccia piena di pesci, che aveva avuto cura di prendere.
Il prussiano sorrise: «Eh! eh! vedo bene che non andava affatto male. Ma si tratta di un'altra cosa. Statemi a sentire e non spaventatevi troppo. Per me, voi siete due spie mandate a spiarci. Io vi prendo e vi faccio fucilare. Voi facevate finta di pescare per nascondere meglio i vostri progetti. Siete caduti nelle mie mani, tanto peggio per voi; la guerra è così. Ma siccome avete oltrepassato gli avamposti, avrete certamente una parola d'ordine per tornare indietro. Ditemi questa parola d'ordine e io vi faccio grazia.»
I due amici, lividi, l'uno a fianco dell'altro, con le mani agitate da un lieve tremito nervoso, tacevano.
«Nessuno lo saprà mai» riprese l'ufficiale «voi ve ne tornerete a casa pacificamente. Il segreto, scomparirà con voi. Se rifiutate, è la morte, e subito. Scegliete.»
Essi rimasero immobili senza aprir bocca.
II prussiano, sempre calmo, riprese stendendo la mano verso il fiume: «Pensate che in cinque minuti sarete in fondo a quest'acqua. In cinque minuti! Avrete dei parenti immagino?»
Mont-Valerien continuava a tuonare.
I due pescatori rimanevano ritti e silenziosi. Il tedesco diede ordini nella propria lingua. Poi cambiò posto alla sua sedia per non essere troppo vicino ai prigionieri, e dodici uomini vennero a mettersi in riga col fucile ai piedi. L'ufficiale riprese: «Vi concedo un minuto, non un secondo di più.» Poi si alzò bruscamente, s'avvicinò ai due francesi, prese Morissot sotto braccio, lo trascinò un po' lontano e gli disse sottovoce: «Presto, questa parola d'ordine! Il vostro compagno non saprà niente. Farò finta di commuovermi.»
Morissot non aprì bocca.
Allora il prussiano condusse via il signor Sauvage e gli fece la stessa domanda. Neppure il signor Sauvage rispose. Si trovarono ancora l'uno a fianco dell'altro. L'ufficiale diede un ordine. I soldati alzarono le armi.
In quel momento lo sguardo di Morissot cadde per caso sulla bisaccia piena di ghiozzi, rimasta là sull'erba, a pochi passi da lui. Un raggio di sole faceva scintillare le squame dei pesci che guizzavano ancora. Lo invase una profonda stanchezza. Suo malgrado, gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Balbettò: «Addio, signor Sauvage.»
Sauvage rispose: «Addio, signor Morissot.»
Si strinsero la mano, scossi da capo a piedi da un tremito invincibile.
«Fuoco!» gridò l'ufficiale.
I dodici colpi risuonarono come uno solo.
Il signor Sauvage cadde di peso in avanti. Morissot, più alto, oscillò, girò su se stesso e piombò per traverso sul suo compagno, col volto verso il cielo, mentre fiotti di sangue sgorgavano dalla giubba crivellata sul petto. Il tedesco diede altri ordini. I suoi soldati si dispersero, tornarono di lì a poco con corde e pietre che attaccarono ai piedi dei due cadaveri, poi li portarono sulla riva.
Mont-Valerien tuonava sempre, avvolto ora da una montagna di fumo.
Due soldati presero Morissot per la testa e per le gambe; due altri fecero lo stesso col signor Sauvage. I cadaveri, fatti dondolare un po' con forza, furono lanciati lontano, descrissero una curva, poi piombarono, ritti, nel fiume, trascinati giù dalle pietre.
L'acqua gorgogliò, ribollì, s'increspò, poi tornò calma, mentre piccole onde venivano a riva. Un po' di sangue galleggiava sull'acqua. L'ufficiale, sempre calmo, disse a bassa voce: «Adesso è la volta dei pesci.» Poi tornò verso la casa. Vide nell'erba la bisaccia coi ghiozzi. La raccolse, la esaminò, sorrise e gridò: «Wilhelm!»
Un soldato in grembiule bianco accorse. E il prussiano, gettandogli la pesca dei due fucilati, ordinò: «Fammi subito una frittura di questi animaletti finché sono ancor vivi. Sarà squisita»
E riprese a fumare la sua pipa.


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1. Si mangiava... cosa: il testo lascia intendere che i parigini, assediati dai prussiani, sono costretti dalla fame a nutrirsi anche di uccelli e perfino di topi.

2. Boulevard: grande viale alberato.

3. Assenzio: qui un liquore molto potente.

4. Salvacondotto: permesso di transito rilasciato dalle autorità militari che consente di entrare e uscire da territori controllati o occupati dall'esercito.

5. Arguzia: capacità di comunicare con acutezza e ironia.

6. Ghiozzo/arborella: piccoli pesci d'acqua dolce.