domenica 17 febbraio 2019

Boccaccio: Simona e Pasquino


Giovanni Boccaccio, Il Decamerone
(versione in italiano moderno di Aldo Busi)


UN ROSPO ALLA SALVIA
Storia n. 7   Quarta Giornata

Emilia:

Non molto tempo fa, viveva a Firenze una ragazza tanto bella, tanto distinta nonostante la sua condizione, figlia, poverina, di un padre povero in canna. Simona - così si chiamava - sebbene dovesse guadagnarsi col sudore della fronte il pane che metteva in bocca e tirasse a campare col suo lavoro di filatrice, non era però sprovvista di quella sensibilità senza la quale l'Amore non può essere accolto nella mente; già da qualche tempo il Birichino cercava di intrufolarsi sotto le spoglie di un ragazzino, di non maggior censo, dai modi scherzosi e dalla lingua sciolta, uno che andava in giro a distribuire la lana da filare per conto del suo mastro lanaiuolo.
Quando Simona accolse in sé l'amore sotto forma dei bei pomelli del ragazzo, che non era meno innamorato di lei e si chiamava Pasquino, cominciò a sentire qualcosa che rallentava il ritmo del fuso, ma poiché non osava farsi più avanti di quanto non si facesse indietro vergognosa del suo sensuale languore, non vi dico che sospiri le facevano tirare le sue voglie filate insieme a ogni spanna di lana che avvolgeva sul fuso lavorando di fantasia con chi gliel'aveva portata. Pasquino, dal canto suo, sembrava preoccuparsi molto che la lana del suo padrone venisse filata a regola d'arte e trascurava ogni altra per dare i suoi consigli solo a Simona, come se fosse lei l'unica filatrice dalla quale dipendeva la buona riuscita del tessuto.
A forza di sollecitare e di essere sollecitata, successe che, mentre il ragazzo a furia di darle consigli si faceva sempre meno timido, la ragazza abbandonava spanna dopo spanna ogni paura e vergogna - fino a che i due si cardarono e annodarono e pettinarono con tale perizia e alto gradimento da parte di entrambi che nessuno dei due faceva più in tempo a fare le fusa che già si ritrovava lungo disteso.
Queste gare a chi prendeva per primo l'iniziativa divennero, giorno dopo giorno, una sana e sempre più focosa consuetudine, finché Pasquino, stufo di quegli abboccamenti furtivi, chiese a Simona di trovare il modo per incontrarsi in un posto erboso che gli era venuto in mente per potersene stare insieme a tutto corpo senza essere sempre sul chivalà. Simona disse che l'idea non era malvagia e una domenica pomeriggio, invece di andare alla fiera di san Gallo come aveva detto a suo padre, si imboscò insieme alla sua amica Lagina nel giardino indicatole da Pasquino, che ce la stava già aspettando in compagnia di un suo amico chiamato Puccino ma soprannominato lo Stramba. Lo Stramba e Lagina andarono subito oltre le presentazioni e, l'amorazzo cominciando a farsi più spinto, i due innamorati li piantarono in asso per andarsene da qualche altra parte.
Nell'angolo di giardino dove Pasquino aveva portato Simona, c'era un gran bel cespuglio di salvia e i due amanti andarono a sdraiarsi proprio lì sotto; ne passò di tempo prima di dire basta alla loro pignoleria amorosa e quando poi si misero a parlare di come sarebbe stato forte fare merenda proprio lì a mente fresca, Pasquino si girò verso il cespuglio, strappò una fogliolina di salvia e cominciò a strofinarsela su denti e gengive, perché, come diceva Simona, era il dentifricio migliore per pulirsi la bocca dopo mangiato. Quando ritenne di averli tirati abbastanza a lucido, riprese il discorso sul picnic che dovevano fare, ma non continuò a parlare per molto, perché improvvisamente la faccia gli si stravolse tutta, la vista si annebbiò, la parola si spense in bocca e nel giro di pochi secondi morì.
Simona, atterrita da quell'inaspettata agonia, cominciò a piangere e a gridare e a chiamare lo Stramba e Lagina, che si precipitarono da lei e videro che Pasquino non solo era morto, ma tutto enfiato e con la faccia butterata da macchie scure.
«Donna malvagia!» gridò lo Stramba «L'hai avvelenato!» e con le sue urla attirò l'attenzione di molta gente che abitava nei dintorni del parco accorsa a curiosare.
Il corpo riverso tutto gonfio e lo strepito delle accuse che lo Stramba continuava a lanciare contro Simona, convinsero tutti che era stata la ragazza a avvelenarlo, anche perché, inebetita com’era dalla fulminea disgrazia che le aveva tolto l'amante, non diceva mezza parola per difendersi, ma, come assente, continuava a singhiozzare in silenzio e, senza opporre alcuna resistenza, si lasciò prendere e trascinare al palazzo del podestà come un peso morto.
Qui lo Stramba, sostenendo e sollecitando l'accusa insieme a altri amici di Pasquino, il Tarchiato e il Difficilino, che erano sopraggiunti nel frattempo, tanto fece che il giudice diede immediatamente inizio all'interrogatorio. Le spiegazioni senza capo né coda che la ragazza balbettava confusamente lasciavano chiaramente trasparire che anche lei era vittima innocente di un arcano guaio, e siccome il giudice non era ancora riuscito a capire bene cosa fosse successo realmente, decise di recarsi sul posto insieme a lei per vedere il cadavere.
Perciò fece condurre la ragazza - non prima di aver detto agli scalmanati di darsi una calmata - là dove il cadavere di Pasquino giaceva ancora per terra, gonfio come una botte, e quando sopraggiunse anche lui, le chiese di ricostruirgli la dinamica·dell'incidente.
Lei, dopo aver raccontato tutti i particolari che ricordava, si avvicinò al cespuglio di salvia e, per far intendere pienamente il poco di cui era stata testimone, staccò una fogliolina dal cespuglio e prese a strofinarsela sui denti, proprio come aveva fatto Pasquino.
Lo Stramba, il Tarchiato e gli altri amici e conoscenti di Pasquino, intanto, insistevano sulla colpevolezza di quella poco di buono e esortavano il giudice a lasciar perdere quella ridicola messinscena e a darle la punizione che si meritava, il rogo, nient'altro che il rogo, ma mentre si vociava se una condanna tanto mite potesse mai bastare per un simile delitto, l'infelice ragazza, confusa tra il dolore per l'amante perduto e la paura per la pena reclamata a gran voce dallo Stramba, fu vittima dello stesso incidente occorso a Pasquino. E il tumulto dei presenti si trasformò in un silenzio stupito e funereo.
Ah, fortunate quelle anime amanti che nello stesso giorno videro finire il loro amore infinito e la vita mortale! Felici voi, che insieme ve ne siete andati verso la stessa meta! E se nell' altra vita si ama, felicissimi voi che potrete amarvi come facevate qua! Ma di gran lunga più felice l'anima di Simona secondo noi, che le siamo sopravvissuti e ci siamo ancora, poiché la sua innocenza non è stata macchiata dalla condanna auspicata dallo Stramba, dal Tarchiato e dal Difficilino - forse miserrimi cardatori o anche peggio - e le ha offerto un modo più onesto per sottrarsi alle loro calunnie: la stessa morte per raggiungere l'anima che tanto amava del suo Pasquino.
Il giudice, stupefatto come tutti gli altri per quell'inspiegabile colpo di scena, rimase a lungo senza saper che dire e quando riuscì a scrollare la testa disse, come riprendendosi:
«È chiaro che questa salvia è velenosa, il che non è proprio della salvia. Sarà meglio tagliarla fino alle radici e bruciarla fino all'ultima foglia, se vogliamo evitare che uccida qualcun altro.»
Il guardiano del parco eseguì immediatamente e non fece in tempo a sradicare il cespuglio che apparve l'assassino dei due giovani morosi.
Sotto la salvia c'era un rospo di una grossezza mai vista, era stato certamente lui a avvelenarla con le sue secrezioni venefiche. Siccome nessuno si azzardava a avvicinarsi a quel rospo, gli fecero una catasta tutt'intorno e lo bruciarono insieme alla salvia e con quel crepitio si conclusero le indagini del giudice sulla morte del povero Pasquino.
Lui e la sua Simona, così gonfi com'erano, furono seppelliti dallo Stramba, dal Tarchiato, dal Difficilino e da Guccio Imbratta nella chiesa di san Paolino, visto che erano tutti di quella stessa parrocchia lì.


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