Giovanni Boccaccio, Il
Decamerone
(versione in italiano moderno di Aldo Busi)
UN
ROSPO ALLA SALVIA
Storia n. 7 Quarta
Giornata
Emilia:
Non molto tempo
fa, viveva a Firenze una ragazza tanto bella, tanto distinta nonostante la sua
condizione, figlia, poverina, di un padre povero in canna. Simona - così si
chiamava - sebbene dovesse guadagnarsi col sudore della fronte il pane che
metteva in bocca e tirasse a campare col suo lavoro di filatrice, non era però
sprovvista di quella sensibilità senza la quale l'Amore non può essere accolto
nella mente; già da qualche tempo il Birichino cercava di intrufolarsi sotto le
spoglie di un ragazzino, di non maggior censo, dai modi scherzosi e dalla
lingua sciolta, uno che andava in giro a distribuire la lana da filare per
conto del suo mastro lanaiuolo.
Quando Simona
accolse in sé l'amore sotto forma dei bei pomelli del ragazzo, che non era meno
innamorato di lei e si chiamava Pasquino, cominciò a sentire qualcosa che
rallentava il ritmo
del fuso, ma poiché non osava farsi più avanti di quanto non si facesse
indietro vergognosa del suo sensuale languore, non vi dico che sospiri le
facevano tirare le sue voglie filate insieme a ogni spanna di lana che
avvolgeva sul fuso lavorando di fantasia con chi gliel'aveva portata. Pasquino,
dal canto suo, sembrava preoccuparsi molto che la lana del suo padrone venisse
filata a regola d'arte e trascurava ogni altra per dare i suoi consigli solo a
Simona, come se fosse lei l'unica filatrice dalla quale dipendeva la buona
riuscita del tessuto.
A forza di
sollecitare e di essere sollecitata, successe che, mentre il ragazzo a furia di
darle consigli si faceva sempre meno timido, la ragazza abbandonava spanna dopo
spanna ogni paura e vergogna - fino a che i due si cardarono e annodarono e
pettinarono con tale perizia e alto gradimento da parte di entrambi che nessuno
dei due faceva più in tempo a fare le fusa che già si ritrovava lungo disteso.
Queste gare a chi
prendeva per primo l'iniziativa divennero, giorno dopo giorno, una sana e sempre
più focosa consuetudine, finché Pasquino, stufo di quegli abboccamenti furtivi,
chiese a Simona di trovare il modo per incontrarsi in un posto erboso che gli
era venuto in mente per potersene stare insieme a tutto corpo senza essere
sempre sul chivalà. Simona disse che l'idea non era malvagia e una domenica
pomeriggio, invece di andare alla fiera di san Gallo come aveva detto a suo
padre, si imboscò insieme alla sua amica Lagina nel giardino indicatole da
Pasquino, che ce la stava già aspettando in compagnia di un suo amico chiamato
Puccino ma soprannominato lo Stramba. Lo Stramba e Lagina andarono subito oltre
le presentazioni e, l'amorazzo cominciando a farsi più spinto, i due innamorati
li piantarono in asso per andarsene da qualche altra parte.
Nell'angolo di
giardino dove Pasquino aveva portato Simona, c'era un gran bel cespuglio di
salvia e i due amanti andarono a sdraiarsi proprio lì sotto; ne passò di tempo
prima di dire basta alla loro pignoleria amorosa e quando poi si misero a
parlare di come sarebbe stato forte fare merenda proprio lì a mente fresca,
Pasquino si girò verso il cespuglio, strappò una fogliolina di salvia e
cominciò a strofinarsela su denti e gengive, perché, come diceva Simona, era il
dentifricio migliore per pulirsi la bocca dopo mangiato. Quando ritenne di
averli tirati abbastanza a lucido, riprese il discorso sul picnic che dovevano
fare, ma non continuò a parlare per molto, perché improvvisamente la faccia gli
si stravolse tutta, la vista si annebbiò, la parola si spense in bocca e nel
giro di pochi secondi morì.
Simona, atterrita
da quell'inaspettata agonia, cominciò a piangere e a gridare e a chiamare lo
Stramba e Lagina, che si precipitarono da lei e videro che Pasquino non solo
era morto, ma tutto enfiato e con la faccia butterata da macchie scure.
«Donna malvagia!»
gridò lo Stramba «L'hai avvelenato!» e con le sue urla attirò l'attenzione di
molta gente che abitava nei dintorni del parco accorsa a curiosare.
Il corpo riverso
tutto gonfio e lo strepito delle accuse che lo Stramba continuava a lanciare
contro Simona, convinsero tutti che era stata la ragazza a avvelenarlo, anche
perché, inebetita com’era dalla fulminea disgrazia che le aveva tolto l'amante, non diceva mezza
parola per difendersi, ma, come assente, continuava a singhiozzare in silenzio
e, senza opporre alcuna resistenza, si lasciò prendere e trascinare al palazzo
del podestà come un peso morto.
Qui lo Stramba,
sostenendo e sollecitando l'accusa insieme a altri amici di Pasquino, il
Tarchiato e il Difficilino, che erano sopraggiunti nel frattempo, tanto fece
che il giudice diede immediatamente inizio all'interrogatorio. Le spiegazioni
senza capo né coda che la ragazza balbettava confusamente lasciavano
chiaramente trasparire che anche lei era vittima innocente di un arcano guaio,
e siccome il giudice non era ancora riuscito a capire bene cosa fosse successo
realmente, decise di recarsi sul posto insieme a lei per vedere il cadavere.
Perciò fece
condurre la ragazza - non prima di aver detto agli scalmanati di darsi una
calmata - là dove il cadavere di Pasquino giaceva ancora per terra, gonfio come
una botte, e quando sopraggiunse anche lui, le chiese di ricostruirgli la
dinamica·dell'incidente.
Lei, dopo aver
raccontato tutti i particolari che ricordava, si avvicinò al cespuglio di
salvia e, per far intendere pienamente il poco di cui era stata testimone,
staccò una fogliolina dal cespuglio e prese a strofinarsela sui denti, proprio
come aveva fatto Pasquino.
Lo Stramba, il
Tarchiato e gli altri amici e conoscenti di Pasquino, intanto, insistevano
sulla colpevolezza di quella poco di buono e esortavano il giudice a lasciar
perdere quella ridicola messinscena e a darle la punizione che si meritava, il
rogo, nient'altro che il rogo, ma mentre si vociava se una condanna tanto mite
potesse mai bastare per un simile delitto, l'infelice ragazza, confusa tra il
dolore per l'amante perduto e la paura per la pena reclamata a gran voce dallo
Stramba, fu vittima dello stesso incidente occorso a Pasquino. E il tumulto dei
presenti si trasformò in un silenzio stupito e funereo.
Ah, fortunate
quelle anime amanti che nello stesso giorno videro finire il loro amore
infinito e la vita mortale! Felici voi, che insieme ve ne siete andati verso la
stessa meta! E se nell' altra vita si ama, felicissimi voi che potrete amarvi
come facevate qua! Ma di gran lunga più felice l'anima di Simona secondo noi,
che le siamo sopravvissuti e ci siamo ancora, poiché la sua innocenza non è
stata macchiata dalla condanna auspicata dallo Stramba, dal Tarchiato e dal
Difficilino - forse miserrimi cardatori o anche peggio - e le ha offerto un
modo più onesto per sottrarsi alle loro calunnie: la stessa morte per
raggiungere l'anima che tanto amava del suo Pasquino.
Il giudice,
stupefatto come tutti gli altri per quell'inspiegabile colpo di scena, rimase a
lungo senza saper che dire e quando riuscì a scrollare la testa disse, come
riprendendosi:
«È chiaro che
questa salvia è velenosa, il che non è proprio della salvia. Sarà meglio
tagliarla fino alle radici e bruciarla fino all'ultima foglia, se vogliamo
evitare che uccida qualcun altro.»
Il guardiano del
parco eseguì immediatamente e non fece in tempo a sradicare il cespuglio che
apparve l'assassino dei due giovani morosi.
Sotto la salvia
c'era un rospo di una grossezza mai vista, era stato certamente lui a avvelenarla
con le sue secrezioni venefiche. Siccome nessuno si azzardava a avvicinarsi a
quel rospo, gli fecero una catasta tutt'intorno e lo bruciarono insieme alla
salvia e con quel crepitio si conclusero le indagini del giudice sulla morte
del povero Pasquino.
Lui e la sua
Simona, così gonfi com'erano, furono seppelliti dallo Stramba, dal Tarchiato,
dal Difficilino e da Guccio Imbratta nella chiesa di san Paolino, visto che
erano tutti di quella stessa parrocchia lì.
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