Benedetto Croce
Tornando sul Manzoni
Ho letto che in Inghilterra ha avuto
grande fortuna una nuova traduzione inglese che è stata fatta ora dei Promessi
sposi, e mi sono ricordato che, circa settanta anni fa, una bella signora
svedese, che era stata a lungo a Londra e con la quale m’incontrai in uno
stesso albergo delle vicinanze di Napoli, conversando mi raccontò che,
essendosi recata da un libraio, assisté allo spettacolo di una signora inglese
che entrò furiosa e depose o piuttosto gettò sul banco un libro, dicendo: «Mi
avete dato un libro illeggibile, noiosissimo». Ed essa andata via, la signora
guardò di che libro si trattasse e vi lesse sopra: MANZONI, I promessi sposi.
È da augurare che la critica letteraria
europea cominci a fare ammenda della fredda stima in cui ha tenuto l’opera del
Manzoni, che è nel numero delle opere capitali della letteratura europea nel
secolo passato. Per parte mia, soglio rileggere questo libro periodicamente e
ne traggo sempre commozione e conforto, e sempre rinnovata ammirazione per la
perfezione della sua forma. Può sembrare strano che io dica ciò, avendo altra
volta stampato che i Promessi sposi
sono una bellissima «opera oratoria»; ma veramente debbo confessare che quella
impropria parola nacque da un errore o piuttosto da una grossa distrazione
nella quale incorsi nel criticare il giudizio corrente e che fu anche del De
Sanctis, che i personaggi del Manzoni si distinguano in concreti e realistici
come Renzo e don Rodrigo, astratti e ideali come Lucia e fra Cristoforo, e
intermedi come don Abbondio; ed io affermai per contrario che il Manzoni usava
lo stesso metodo per costruire gli uni e gli altri, e volevo dire che gli uni e
gli altri erano prodotto della stessa fantasia artistica, cosa che mi sembra
sempre verissima.
Ma quanto all’«opera oratoria», sarei
impacciato nell’assegnare l’origine del mio errore, perché vi ebbe parte lo
zelo di irreprensibilità cattolica del Manzoni e l’osservazione dello Scalvini,
che i Promessi sposi non si svolgessero sotto libero cielo ma sotto la volta di
una chiesa; per non dire delle vivaci critiche del Settembrini che in verità
non ebbero molto potere su di me. Comunque, da ciò venne che concepii l’idea di
una sorta di fusione nell’opera del Manzoni tra Poesia e Oratoria; dal che avevo
il dovere di guardarmi più che altri, per la feroce insofferenza da me sempre manifestata
per la confusione nella quale artisti e critici incorrevano della Poesia con l’Oratoria.
Ma dire l’origine di un errore o di una distrazione è sovente assai difficile, e
tale è nel mio caso. Pel quale debbo confessare che sono rimasto molto
mortificato tra me e me quando vi sono tornato sopra, ancorché nessuno me n’abbia
rimproverato come io meritavo.
Dopo questo ben chiaro mea culpa, alcune correzioni, come è
naturale, sono da introdurre in ciò che ho scritto del Manzoni per questa
parte, e ne lascio la non difficile cura agli intelligenti lettori.
Piuttosto, sarà da soggiungere qualcosa
sul sentimento cattolico del Manzoni: cioè, che esso risponde a una concezione
morale della vita quale anche un non cattolico ma di alto animo fa sua. E forse
in ciò è la vera origine della diffidenza che la Chiesa cattolica ebbe verso il
Manzoni, nel quale non trovava nessuno dei motivi che servivano alla sua
politica. Della qual cosa si avvide presto Carlo Cattaneo, che disse che la
Chiesa cattolica assai volentieri avrebbe bruciato sul rogo Alessandro Manzoni.
E anche di recente abbiamo udito borbottare contro il Manzoni, poco cattolico,
che nel suo romanzo aveva messo insieme una monaca incestuosa, un frate omicida,
e un parroco vigliacco, e si era mantenuto tacitamente giansenista in tutta la sua
vita. Il vero è che precipuo pregio dei Promessi
sposi è la sincerità, sempre rigorosamente osservata dal suo autore, che
non mostrò di farsene un vanto e la praticò con semplicità di movimenti.
(Lo Spettatore italiano, marzo
1952)