mercoledì 21 ottobre 2015

Libri e felicità (Annachiara Sacchi)

L’indagine voluta dal gruppo Gems e condotta dal centro Cesmer (Università di Roma Tre)

Anche la scienza conferma
Chi legge libri è più felice

Francesco Petrarca, nel XIV secolo, lo sperimentava su se stesso ogni giorno. Parlando dei libri diceva: «Per me cantano e parlano; e chi mi svela i segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte. E v’è chi con festose parole allontana da me la tristezza». Non è stato il solo -e nemmeno il primo- a cantare i poteri terapeutici della lettura. Hanno usato espressioni simili Cicerone, Kafka, Salinger, Virginia Woolf («Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine»). Ma questa volta il tema è scientifico e un’indagine lo dimostra con numeri, dati e tabelle: leggere rende felici. E aiuta ad affrontare meglio la vita.

Più ottimisti di chi non legge. Meno aggressivi, più predisposti alla positività. Ecco i lettori secondo la ricerca La felicità di leggere voluta da Gems (gruppo editoriale Mauri Spagnol) in occasione del suo decimo compleanno e affidata a Cesmer, Centro di studi su mercati e relazioni industriali dell’Università di Roma Tre. Obiettivo del committente: capire come e quanto i libri, cartacei o digitali, incidano sul benessere generale dell’individuo. Il metodo usato: interviste su un campione di 1.100 persone (tra il 12 maggio e il 14 giugno scorsi) suddivise in lettori e non lettori (da ricordare il dato Istat 2014: il 58,6% degli italiani non ha letto un solo libro nei precedenti 12 mesi). La novità: non era mai stato affrontato prima il valore della lettura in ambito emotivo e cognitivo.

Ecco allora i risultati. Il più evidente: i lettori italiani sono complessivamente più felici dei non lettori. Lo dice un numero, l’indice di felicità complessiva (misurato con la scala Veenhoven, da 1 a 10): chi legge arriva a quota 7,44, chi non legge scende a 7,21, «una differenza statisticamente molto significativa», spiegano gli studiosi che hanno realizzato la ricerca (la media italiana è di 7,30). Altro elemento, altri sistemi di misurazione: secondo la scala di Diener e Biswas-Diener che misura la frequenza (da 6 a 30) di sei emozioni positive, i lettori hanno un indice superiore ai non lettori: rispettivamente 21,69 contro 20,93. Risultato: chi ama saggi e romanzi sperimenta emozioni positive più spesso di chi non si dedica ai libri. Allo stesso modo, e secondo la stessa scala, i lettori provano emozioni negative con minore frequenza rispetto a chi non legge: 16,84 contro 17,47. E qui, a confortare i numeri, Montesquieu potrebbe aggiungere la sua: «Mai avuto un dolore che un’ora di lettura non abbia dissipato». In particolare, i lettori si sentono arrabbiati meno frequentemente rispetto ai non lettori. Spiegazione: «La lettura offre preziosi strumenti cognitivi per affrontare le difficoltà».

Il dato generale è confermato, leggere fa stare meglio. Ma la ricerca evidenzia altri aspetti. E soprattutto, fa notare Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato di Gems, «fa emergere un profilo del lettore lontano dagli stereotipi». Non curvo sui testi, solitario, asociale, ma attento a godere ogni momento della giornata, soprattutto quando non è al lavoro. E infatti il lettore è più soddisfatto di come trascorre il tempo libero (7,59) rispetto ai suoi «opposti» (7,35); ritiene che leggere sia l’attività più importante quando non ha da fare (al secondo posto la musica, al terzo l’informazione attraverso giornali o siti); ma soprattutto considera che il maggior «generatore di felicità» — sempre durante il tempo libero — sia l’esercizio fisico (7,80), seguito dall’ascolto della musica (7,74), da mostre e concerti (7,52) e, solo al quarto posto, dalla lettura (7,24).

Mauri sorride: «Come si deduce dai numeri, chi legge impiega in modo più ricco e articolato i suoi momenti di libertà dal lavoro, è curioso, sa assaporare e scegliere le attività che gli danno gioia. Inoltre leggere amplifica le emozioni positive, consente di affrontare gli eventi negativi senza perdersi. Fa bene sul serio». Missione compiuta: «La ricerca — continua Mauri — ha risposto alle nostre domande: l’impegno e la passione che mettiamo nel nostro lavoro di editori si riflettono sulla vita dei lettori».

L’identikit è tracciato, ora si scende nei dettagli: la maggior parte degli amanti dei libri legge dal lunedì al venerdì dalle 19 all’una di notte. Oppure durante il finesettimana, anche nel primo pomeriggio. Curiosità: su cento lettori, 69,63 non leggono sui mezzi pubblici o privati, meglio il letto, l’autobus non aiuta. Aiutano invece la famiglia e la scuola: il 68,7% del campione sottolinea l’importanza dei genitori e degli insegnanti nell’incoraggiamento alla lettura. Per diventare «lettori felici» bisogna cominciare da piccoli.
Annachiara Sacchi (Corriere della Sera, 21 ottobre 2015)



L'età dell'insicurezza (Giangiacomo Schiavi)

Vaprio D’Adda, quella ferita sempre aperta nel Nord profondo

Prima di improbabili paragoni con il Far West mettiamoci nei panni di un cittadino che sorprende i ladri in casa. «Se avessi avuto il revolver nel cassetto chissà come finiva», confidò il giudice D’Ambrosio dopo il furto nell’abitazione.

Francesco Sicignano il revolver ce l’aveva a portata di mano ed è finita come è finita. Si può morire per quattro soldi e qualche oggetto d’oro, a Vaprio d’Adda come in qualsiasi comune del profondo Nord, quando la paura dei ladri e delle bande che svaligiano ville e appartamenti crea psicosi a lungo sottovalutate.

Ma chi spara non è un eroe: niente autorizza la giustizia fai da te. Se questo avviene è perché c’è un deficit di fiducia, una percezione di insicurezza che sindaci e cittadini del Nord lamentano da anni, un allarme confermato dall’inchiesta di Aldo Cazzullo sul Corriere: quando lo Stato lascia sguarnite certe zone o limita i controlli, non ci si può sorprendere se la gente si difende.

Chi ha subito un furto in casa sa che la violazione del domicilio è una ferita sempre aperta, una spoliazione di beni e di intimità: ci si difende con le inferriate, gli allarmi, le telecamere e le porte blindate, ma c’è sempre un elemento irrazionale che scatta quando ci si trova davanti a un ladro e si teme per l’incolumità propria e dei familiari. È successo in passato a Castenedolo, nel Bresciano: un ladro è stato ucciso dal proprietario della casa che stava per svaligiare. Reazione di sopravvivenza o eccesso di legittima difesa? Omicidio volontario, lo rubricò il giudice che rilasciò subito l’indagato. Identica è l’accusa per il pensionato che ha sparato e ucciso il giovane rumeno sorpreso nella sua abitazione a Vaprio d’Adda.


A suo sostegno sono arrivate le prime fiaccolate, persino l’esaltazione dell’autodifesa con la pistola: in assenza delle risposte, di una riflessione sullo stato delle forze dell’ordine nei territori e nelle zone lasciate alle scorrerie delle bande di ladri e malavitosi, la politica prende le sue scorciatoie propagandistiche. Resta il fatto che la gente ha paura, che i controlli sono scarsi, che non sempre quelli che vengono sorpresi in flagranza di reato stanno in galera. E poi qualcuno spara.

Giangiacomo Schiavi (Corriere della Sera, 21 ottobre 2015)

sabato 17 ottobre 2015

Gli italiani e i migranti (Aldo Cazzullo)


Gli italiani e i migranti

Ma la paura non è una colpa

La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata, come fa la Lega. Ma non va neppure negata e rimossa, come fa la sinistra e anche una parte del mondo cattolico. La paura si vince rimuovendone le cause.

Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutto non ne vedono la fine. L’impressione è che il governo e gli enti locali stentino a organizzare sia l’accoglienza, sia i rimpatri; e soprattutto non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologica senza cui l’integrazione resta utopia. Il tentativo di coinvolgere l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le guerre civili nel Nordafrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizzare l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedono ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendoli ai trafficanti di uomini, e di selezionare all’origine i «migranti economici», distinguendo le figure professionali di cui l’Italia ha bisogno dalla massa che andrebbe fermata o rimandata indietro.

I migranti non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il tessuto industriale e sociale, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia.

Le reazioni emotive di fronte a migranti che non si sono ancora neppure visti, come nel paese rosso di Badia Prataglia sull’Appennino toscano, e gli scontri tra i parroci che li accolgono e i sindaci che li respingono, come a Bondeno, in riva al Po, non sono conseguenze del razzismo, ma dell’insicurezza. Che cresce proprio perché nella discussione pubblica non viene considerata, bensì liquidata con un’alzata di spalle o uno sguardo di commiserazione.

Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierata dell’immigrazione, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici; tanto i figli vanno alla scuola internazionale, e i nonni nella clinica privata. L’immigrazione può rivelarsi un sollievo per il sistema produttivo, ma comporta un prezzo, tutto a carico delle classi popolari, chiamate a combattere ogni giorno una guerra tra poveri per il posto all’asilo, il letto in ospedale, la lista d’attesa al pronto soccorso, e pure la casa e il lavoro.

Certo, alle società esangui e anziane d’Europa servono le energie formidabili che salgono dalle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo. Ma non è forse cinica la logica di rimpiazzare con i nuovi venuti i bambini che gli italiani non fanno più, anziché sostenere la maternità o almeno mettere in condizione le donne di scegliere liberamente? Anche sull’apporto dei migranti all’economia è nata una retorica, ridimensionata sul Financial Times da Martin Wolf, editorialista britannico orgogliosamente figlio di profughi: per coprire i buchi del welfare e della previdenza l’Europa dovrebbe accogliere in pochi anni decine di milioni di stranieri. Che non sbarcano nelle vaste praterie deserte d’America, ma in Paesi - come il nostro - montuosi e densamente antropizzati, cioè popolati da secoli non solo dall’uomo e dalle sue opere ma da memorie e culture, retti su equilibri precari da ricostruire ogni volta. Così diventano simboli anche l’altalena contesa nel giardino di Padova chiuso tra il campo profughi e l’asilo, o la rivolta di Gorizia in difesa del parco che custodisce i segni drammatici della sua storia, trasformato in bivacco.

C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Volontari laici e cattolici fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministrazione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerire il peso che grava sulle nostre frontiere, organizzando il viaggio dei profughi e il respingimento dei clandestini; e far funzionare la macchina dell’integrazione, legando i diritti ai doveri, che comprendono la conoscenza e il rispetto dei nostri valori, a cominciare dall’uguaglianza tra uomo e donna. Forse don Abbondio aveva torto: il coraggio uno se lo può dare. A patto di rispettare la paura ed eliminarne le ragioni.

Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 14 ottobre 2015)

 

domenica 4 ottobre 2015

Materiali per la riscrittura (2AG ottobre 2015)


Riscrivi le seguenti frasi

 

 

(Correggi la punteggiatura, l’ortografia e il lessico e riscrivi la frase modificando le parti sottolineate –ma non solo!- nella forma e nelle scelte lessicali, dividendo le frasi troppo lunghe e cercando di renderle chiare e scorrevoli)

 

Analisi di tre ritratti di Manzoni

 

I capelli leggermente spettinati e la camicia aperta, secondo me rappresentano la giovane età dello scrittore, in cui non ci si cura troppo della formalità.

(punteggiatura; uso del relativo)

 

 

Manzoni sembra chiedersi cosa ne sarà di lui.

(pleonasmo)

 

L’espressione del suo viso è serena, rilassata.

(connettivo)

 

 

Un altro ritratto può essere quello di Giuseppe Molteni.

(lessico)

 

 

La bocca è ancora socchiusa, ma a differenza la fronte è corrugata.

(lessico)

 

 

Questo si può capire perché lo scrittore è raffigurato come un uomo di mezza età.

(lessico)

 

 

In questo ritratto, Manzoni, a differenza dei precedenti, è raffigurato seduto. Questo per rendere l’idea di un anziano che finito il lavoro si riposa.

(sintassi; punteggiatura, lessico)

 

 

Il suo abbigliamento è piuttosto ribelle.

(lessico)

 

 

Gli abiti sono gli stessi ma sono indossati con maggiore eleganza.

(punteggiatura)

 

 

Indossa una camicia bianca e sopra una giacca nera.

(punteggiatura o lessico)

 

 

Manzoni sembra pensoso come se stesse meditando sulla sua vita, sull’esistenza.

(punteggiatura e semplificazione)

 

 

Il ritratto è lo specchio dell’anima ed è per questo che andrò ad analizzare ritratti di Manzoni che lo rappresentano in diverse sezioni della sua esistenza con l’obiettivo di far emergere le differenze che ha subito durante l’arco della sua vita.

(punteggiatura, lessico, struttura della frase, semplificazione)

 

 

Penso che questi dipinti esprimano al meglio le emozioni e le varie fasi della vita e nonostante sappia poco di questo autore mi dà l’idea di una persona creativa, intelligente, nostalgica.

(lessico, punteggiatura, struttura della frase)

 

 

Anche lo sfondo cambia, infatti il paesaggio è più elaborato e grande.

(punteggiatura; lessico)

 

 

I vestiti disordinati mi fanno pensare alla tenera età e all’ingenuità/innocenza.

(lessico; struttura della frase; uso della barra)