lunedì 23 novembre 2015

Radamisto, il bersagliere di 71 anni


Dai campi di Custoza alle trincee del Carso

Radamisto, il bersagliere di 71 anni

Sembra un nome del periodo faraonico ed è d’un nato a Piacenza il 14 febbraio 1846 da una lunga prosapia di piccoli proprietari piacentini. A 18 anni, nel 1864, corre ad arruolarsi a Torino nei bersaglieri e due anni dopo alla battaglia di Custoza ha il braccio destro perforato da una fucilata e la medaglia al valore. Partecipa poi in Sicilia alla campagna contro il brigantaggio finché, congedato nel ’72, gli vien conferito un impiego; ma poi lascia l’impiego… e via in America in quell’Argentina che pareva in quei tempi l’Eldorado. Comincia da facchino; ma finisce col trovare un buon impiego ed accumula un invidiabile capitaletto. Nel ’90 scoppia la guerra civile laggiù; egli non vuole stare coi “civici” né coi “governativi” e si iscrive volontario alla Croce Rossa; per quattro interi giorni soccorre feriti, raccoglie cadaveri (narra che li si legava a fasci buttandoli sui carri e sui tram), e bada a mettere sopra tutto in salvo i connazionali. Il ministro d’Italia lo segnala al ministro Nicotera per una ricompensa e gli vien conferita la medaglia di bronzo al valor civile, mentre il Governo argentino gli rilascia un certificato di benemerenza. Ma la bimba gli muore, la moglie impazzisce e nel 1903 torna in Italia, poi va a Parigi ove il suo spirito bizzarro lo porta a trovarsi al verde e malato con oltre sessant’anni sulle spalle. Fa istanza da Parigi per essere ammesso nella Casa di ricovero pei veterani in Turate. A mezzo dell’ambasciata gli viene risposto non avere egli ancora i limiti di età; ma scrive tale un’epistola pro domo sua che l’ambasciatore Tittoni stesso lo raccomanda al Governo e ottiene che uno dei posti governativi del ricovero venga a lui deferito. Ma non è decorso un anno che scoppia la guerra libica ed egli vuol arruolarsi.  Non lo accolgono. Lascia Turate e corre a Napoli, compra una carabina, si presenta in caserma; ma è respinto.

Scoppia nel ‘915 la nostra guerra e a Milano va dall’aiutante di campo del Conte di Torino per essere arruolato. Lo si consiglia di sottoporsi alla visita militare; ma alla caserma di San Celso gli si constata una vecchia ernia. Non lo accettano. Vuol farsi operare ma al padiglione Ponti esitano data la sua età. Fa appoggiare la propria richiesta da un alto ufficiale ed è accolto. Il 14 giugno entra all’ospedale, il 27 ne esce guarito, il 1° luglio si arruola nei bersaglieri come semplice soldato, malgrado fosse uscito dall’esercito col grado di sergente. L’esempio del senatore Pullè, arruolatosi prima di lui come soldato, lo induce alla baldanzosa rinuncia.

Iscritto nel famoso 12° -fisso ormai a carattere d’oro nella storia militare italiana- combatte nella conca di Plezzo, combatte al Piccolo Javorcek, combatte al tragico Mrzli, ove il colonnello Negrotto cadde, il colonnello De Rossi rimase inguaribilmente ferito. Lui niente; ne esce incolume.

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Da soldato promosso a caporale, eccolo successivamente conquistarsi per merito di guerra i galloni di sergente e sergente maggiore; eccolo ancora, a quasi 71 anni, ottenere il distintivo di “ardito” per ripetute prove d’audacia. I suoi galloni hanno perciò l’ornamento della corona d’oro e porta al braccio la sigla reale. Quando la missione inglese si recò alla nostra fronte Giulia, fra le medaglie distribuite in nome di Re Giorgio ai più valorosi, una d’argento ne diede a Radamisto, il quale ha ora il petto fregiato di sei nastrini di vario colore.

Nel settembre, quando la I brigata bersaglieri venne passata in rivista al Ponte di Versa, questo vecchio svelto loquace, dall’occhio vivo e dal sorriso burlesco, attrasse l’attenzione del Duca d’Aosta, e quattro giorni Antonio Radamisto si vide consegnare solennemente dal proprio colonnello avanti a tutto il reggimento un magnifico orologio d’oro con catena d’oro fattogli regalare dal Duca pel tramite del Comando della brigata bersaglieri. L’orologio porta incisa la dedica: «Al bersagliere di Custoza e d’oggi, sergente maggiore Radamisto» colla firma in facsimile «E. F. di Savoia». L’ordine del giorno che accompagnò la consegna riproduce la lettera del Duca al generale: «Niuna cosa poteva colpirmi maggiornente nella visita alla sua magnifica brigata che quella di vedere tra le file dei suoi baldi e stupendi bersaglieri d’oggi, un bersagliere di altri tempi, il sergente maggiore S. A. Radamisto, quale esempio vivente della gloriosa tradizione e del valore del corpo. L’orologio che le mando per lui non è soltanto il dono per il valoroso veterano, ma anche, caro Generale, un segno della mia ammirazione e della mia fiducia per i suoi splendidi reggimenti, ai quali invio gli auguri più fervidi che possano partire dal mio cuore di italiano, di soldato, di Savoia. «In alto i cuori» e «Più avanti» e «Più alto» sempre.»

Nei gloriosi giorni dell’1, 2 e 3 novembre testè decorsi, il Radamisto partecipò alla presa del Pecinka e del Veliki Hirbak; ora è proposto a maresciallo per merito di guerra.

(Domenica del Corriere, 1916)

 

La degenerazione degli Absburgo


La degenerazione degli Absburgo

Da molto tempo gli scienziati si occupano della ereditarietà delle stigmate di degenerazione tanto negli animali che negli uomini, riuscendo ad affermare la trasmissione ereditaria dei caratteri teratologici, con documenti di prova sicura. In queste indagini, gli elementi umani preferiti sono i membri delle case illustri, specie regnanti, data la possibilità di ottenere una precisa e remota documentazione, per mezzo dei ritratti di famiglia, medaglioni, archivi, ecc. Interessante per noi particolarmente sono gli studi del dottor Galippe, membro dell’Accademia di Medicina francese, e del dottor A. Cartaz, risalenti a qualche anno prima della guerra attuale, in quanto che essi riflettono in modo speciale la degenerazione nella famiglia imperiale degli Absburgo, i nostri nemici ereditari.

Dice il dottor Cartaz: «La degenerazione rivela la sua personalità per mezzo di stigmate caratteristiche, fisiologiche e psicologiche; esse sono multiple, la qual cosa fa che un degenerato non rassomigli a un altro. Accanto all’idiota, si trova il debole di spirito, il debile, il retrogrado; vicino ai tipi di deformazioni più pronunciate, spesso una semplice alterazione di una parte della faccia… Galippe ha scelto una delle famiglie dove la trasmissione di questa tara ereditaria, il prognatismo inferiore, è rivelata nella sua manifestazione massima: quella degli Absburgo, i sovrani d’Austria».

Che cosa sia il prognatismo è noto generalmente. Esso è una speciale disposizione della faccia, per cui la linea del profilo, partendo dalla fronte fino alla parte più prominente dei mascellari, appare obliqua in rapporto al piano orizzontale del cranio. Ciò costituisce, in antropologia, la prominenza della mascella. Il doppio prognatismo mascellare, cioè la proiezione in avanti delle due mascelle, è uno dei tratti che distinguono i negri dell’Africa.

Quale influenza possa avere questa deformazione fisica sulla psiche individuale e sui caratteri morali di tutta una stirpe, è difficile accertare.

Esaminando la storia degli Absburgo si è tratti a credere che essa sia profonda e senza dubbio funesta. Per quanto lontano si risalga, al 13° secolo, si nota che i ritratti di Rodolfo I, cespite della casa austriaca, e di suo figlio Alberto il Vittorioso, mostrano la mascella inferiore avanzata. Due secoli dopo, nel XV, questa deformazione caratteristica si trova ancora in Massimiliano d’Austria e si ripete, più o meno accentuata, in tutti i suoi discendenti. Quattro secoli dopo, la stigmate degenerativa ricompare nel figlio di Napoleone I, il duca di Reichstadt, che la eredita dalla austriaca madre sua. Così attraverso i maritaggi, le caratteristiche teratologiche degli Absburgo, fisiche e psichiche, si sono riprodotte in altri rami regnanti. Luigi XVI e Maria Antonietta avevano entrambi il marchio degli Absburgo.

I due scienziati che hanno preso in esame questo fenomeno degenerativo non accennano a Francesco Giuseppe. Disserta invece sui caratteri di degenerazione somatica nel vecchio imperatore il dottor Neipp, notando come alcuni di essi siano appunto ereditari, e mettendo in rilievo sopra tutto la mediocrità intellettuale e l’insensibilità morale.

Senza dare troppo peso alla supposta follia di Francesco Giuseppe che potrebbe essere solo un fenomeno recente e acquisito di decadenza mentale certo non inverosimile in un uomo così gravato d’anni, si deve riconoscere che i caratteri psichici costituzionali del vecchio sovrano, come nota anche E. Lugaro, nel suo acuto studio «Pazzia d’Imperatore o aberrazione nazionale?» sono ben definiti nella loro anormalità da fatti che nemmeno i cortigiani più zelanti osarono contrastare.

In 67 anni di regno non si conta dell’Imperatore d’Austria un solo atto generoso, una sola frase felice, un solo pensiero chiaroveggente. E’ per contro ben diffusa e, sembra, giustificata, l’accusa di odi familiari implacabilmente nutriti fino al fratricidio, dacché la fucilazione di Massimiliano imperatore del Messico fu da lui voluta o, per lo meno, non impedita, mentre sanno i popoli che gli sono o gli furono soggetti la spietata crudeltà del suo governo.

In linea di massima la politica dell’attuale guerra è attribuita generalmente all’influenza perversa di Guglielmo II e di Francesco Giuseppe, nei quali alcuni alienisti trovano addirittura gli elementi profondi della follia. Il Lugaro, pur ammettendo che le tesi cliniche contengano un nucleo di verità, nega all’attuale crisi un’origine psicopatologica e personale nella infermità dei due sovrani.

Comunque sia, è evidente che l’Imperatore d’Austria guidò impassibile la lunga carriera della sua esistenza, in mezzo ai lutti e alle rovine, senza un’espressione di rimpianto.

La storia del martirologio italiano narra in pagine d’ira e di vendetta la fredda volontà di male del suo spirito inesorabile. Oggi ancora, mentre la sua vita si spegne per legge di natura, sopravvive in lui, con aspetti di furore impotente, la scomposta voglia di dominio, di ferocia e di rivincita. L’ereditarietà della deformazione atavica ha lasciato nel suo corpo in disfacimento l’anima senza rimorso.

A. M. Gianella

(Domenica del Corriere, 1916)