lunedì 8 ottobre 2018

Tolstòj, Il figlio del ladro


Lev Tolstòj

Il figlio del ladro
(da Ciclo di lettura -1908-)


Si riunì in una città un tribunale. I giurati erano contadini, e nobili, e mercanti. Il capo dei giurati era un rispettabile mercante di nome Ivàn Akìmovič Belòv. Tutti rispettavano questo mercante per la sua retta vita: aveva fatto i suoi affari onestamente, non aveva mai imbrogliato nessuno, non aveva fatto pagare a nessuno più del dovuto, e aiutava la gente. Era un vecchio, di quasi settant’anni. Si riunirono i giurati, prestarono giuramento, sedettero ai loro posti e fu portato loro l’imputato, un ladro di cavalli, che aveva, rubato un cavallo a un mužìk1. Stavano proprio per cominciare a giudicarlo quando Ivàn Akìmovič si alzò, e dice al giudice: «Perdonatemi, signor giudice, ma io non posso giudicare».
Si stupì il giudice: «Come sarebbe» dice, «che non potete giudicare?».
«Sarebbe che proprio non posso. Permettete che mi allontani».
E all’improvviso a Ivàn Akìmovič cominciò a tremare la voce, e si mise a piangere. Pianse al punto di non poter parlare. Poi si riprese e dice al giudice:
«Non posso giudicare, signor giudice, perché io e il padre mio siamo forse molto peggiori di questo ladro; come posso giudicare uno che è uguale a me? Non posso, permettete che mi allontani, ve ne prego».
Il giudice lasciò andare Ivàn Akìmovič, e poi, a sera, lo mandò a chiamare e gli chiese: «Perché mai» dice, «ve ne siete andato via dal tribunale?».
Ecco perché disse Ivàn Akìmovič, e raccontò al giudice una storia che lo riguardava.
«Voi» dice, «pensate che io sia figlio di un mercante e che sia nato nella vostra città. Questo non è vero. Io sono figlio di un contadino, mio padre era un contadino, il primo ladro del circondario, ed è morto in prigione. Era un uomo buono, solo che beveva, e quand’era ubriaco picchiava mia madre, dava in smanie, ed era pronto a compiere qualsiasi brutta azione, e poi era lui il primo a pentirsi. Una volta si era portato dietro pure me a rubare. E proprio quella volta cominciò la mia fortuna.
«Andò così. Mio padre era in compagnia di alcuni ladri in una bettola, e cominciarono a parlare di dove avrebbero potuto fare un po’ di soldi. E mio padre dice loro: “Ecco come stanno le cose, ragazzi. Voi conoscete” dice, “il magazzino del mercante Belòv, quello che dà sulla strada. In questo magazzino, di roba ce n’è un subisso. Solo che per penetrare là dentro ce ne vuole di ingegno, ma mi è venuta un’idea: ecco quel che ho pensato. In quel magazzino c’è una finestrella, solo che è in alto, ed è stretta, un uomo grosso non ci si può infilare. E allora ecco quel che ho pensato. Io” dice, “ho un figlio giovanetto, un ragazzino furbo” -era di me che parlava- “così noi ce lo portiamo dietro, lo leghiamo con una corda, lo accostiamo alla finestra, lui si arrampicherà, lo caleremo con la corda, e un’altra corda gliela daremo in mano, e con quella stessa corda ci passerà la roba dal magazzino, e noi la tireremo fuori. E quando avremo preso quel che ci occorre, lo tireremo su”.
«E la cosa piacque ai ladri, e dicono: “Allora, porta il tuo figliolo”.
«E arrivò a casa mio padre, mi chiama. Mia madre dice: “Perché ti serve il ragazzo?”. – “Mi serve, dunque chiamalo”. Mia madre dice: “È per strada”. – “Chiamalo”. Mia madre sapeva che, quand’era ubriaco, era impossibile parlare con lui, sapeva che picchiava. Corse a cercarmi, mi chiamò. E mio padre mi dice: “Van’ka!2 Sei capace di arrampicarti?”. – “Io m’arrampico dove voglio”. – “Allora” dice, “vieni con me”. Mia madre cercò di dissuaderlo, lui la zittì con un gesto, lei tacque. E mio padre mi prese, mi vestì e mi condusse con sé. Mi condusse con sé, mi portò alla bettola, mi diedero tè con lo zucchero e tartine salate, ce ne restammo lì dentro fino a sera. Quando si fece notte, tutti andarono -erano tre in tutto- e mi condussero con loro.
«Giungemmo alla casa di quel mercante Belòv. Subito mi legarono con una corda, e un’altra me la diedero in mano e mi sollevarono. “Non hai paura?” dicono. – “Di che dovrei aver paura, non ho paura di niente, io”. – “Arrampicati sulla finestra e da lì da’ un’occhiata e cerca di vedere le cose migliori: soprattutto roba di pelliccia, e legala con la corda, con quella che tieni in mano. E vedi di legarla non all’estremità della corda, ma a metà, in modo che, quando la tiriamo fuori, te ne resti un capo in mano. Hai capito?” dicono. – “Come potrei non aver capito, ho capito”.
«E mi spinsero su fino alla finestra, mi infilai dentro, e mi calarono giù con la corda. Misi i piedi a terra e subito cominciai a tastare con le mani. Vedere non vedo niente - c’è buio, mi limito a tastare. Come tasto qualcosa di pelliccia, vado subito alla corda, lo lego non all’estremità, ma in mezzo, e quelli lo tiran fuori. Di nuovo tiro la corda, e di nuovo vi lego qualcosa. Se ne tiraron fuori tre di quelle cose, poi tirarono fuori tutta la corda, e voleva dire che... e mi tirarono di nuovo verso l’alto. Mi tengo con le manine alla corda, e quelli tirano. Mi avevano tirato su per metà quando, zac! Si spezzò la corda, e caddi di sotto. Per fortuna caddi su dei cuscini, e non mi feci male.
«In quello stesso momento, come venni in seguilo a sapere, li aveva visti il guardiano, aveva dato l’allarme, e loro se l’erano squagliata con la refurtiva.
«Se la filarono, e io rimasi lì, loro se ne andarono. Me ne sto disteso da solo, al buio, e mi venne paura, piango e grido: “Mamma, mamma! Mamma, mamma!”. E sono così stanco per la paura e le lacrime, e poi non avevo nemmeno dormito quella notte, che neanche mi accorsi di come m’addormentai su quei cuscini. All’improvviso mi sveglio, davanti a me se ne sta con una lanterna in mano quello stesso mercante Belòv, insieme a un poliziotto. Il poliziotto cominciò a chiedermi chi era con me. Gli dissi che ero con mio padre. “E chi è tuo padre?” E io ricominciai a piangere. E allora il vecchio Belòv dice al poliziotto: “Che Dio sia con lui. Un bambino è un’anima di Dio. Non sta bene che denunci il padre; e quel che è andato perduto, ormai è perduto”.
«Era buono il defunto, che il cielo l’abbia in gloria. E la sua vecchia era ancor più pietosa. Mi prese con sé nella sua stanza, mi riempì di dolci, e smisi di piangere: un bambino, si sa, per ogni cosa gioisce. Al mattino mi domanda la padrona: “Vuoi andare a casa?”. E io non so che cosa dire. Dico: “Sì, voglio”. “E con me non vuoi restare?” dice. Io dico: “Voglio”. “E allora resta”.
«Così rimasi. E rimasi, rimasi tanto che vissi con loro. E si fecero rilasciare dei documenti per me, come se fossi un trovatello, mi adottarono. Dapprincipio vissi portando i pacchi, poi, quando crebbi, mi fecero capo commesso, la facevo andar avanti io la bottega. Probabilmente non prestai servizio troppo male. E poi erano brava gente, mi volevano così bene che mi diedero perfino la figlia in moglie. Fecero di me un figlio. Quando morì il vecchio, tutti i beni toccarono a me.
«Ecco dunque chi sono. E io stesso sono un ladro, e figlio di un ladro. E non è mica una faccenda da cristiani, signor giudice. Tutti noialtri uomini dobbiamo perdonare e amare gli uomini, e se quello, il ladro, si è sbagliato, allora non bisogna punirlo, ma averne compassione. Ricordate le parole di Cristo».
Così disse Ivàn Akìmovič.
E il giudice smise di fare domande, e si mise lui stesso a riflettere se, secondo la legge cristiana, fosse possibile giudicare gli uomini.

1 mužìk: (in russo) chi abita in un villaggio, paesano
2 Van’ka: (in russo) diminutivo di Giovanni



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