domenica 16 dicembre 2018

Maupassant - Compare Giuda

Compare Giuda
Guy de Maupassant

Tutto quel paese appariva straordinario, segnato da un’impronta di grandezza quasi religiosa e di lugubre desolazione.
In mezzo a una gran cerchia di colline nude, su cui crescevano soltanto ginestre e, qua e là, strane querce contorte dal vento, si stendeva un ampio stagno di acqua nera e morta sulla quale tremolavano migliaia di canne.
Sulle rive di quel tetro lago c’era una sola casa, una casupola bassa dove abitava un vecchio barcaiolo, compare Joseph, che viveva della sua pesca. Tutte le settimane portava il pesce nei paesi vicini e tornava con le poche provviste che gli bastavano a vivere.
Volli andare a trovare quel solitario, che mi offrì di andare con lui a levar le nasse. Accettai.
La barca era vecchia, tarlata, rozza. E lui, magro e ossuto, remava con un movimento monotono e sciolto che cullava la mente, già avvolta nella tristezza dei luoghi.
Mi pareva d’essere portato ai primi tempi del mondo, in mezzo a quel paesaggio antico, in quella barca primitiva governata da un uomo di altri tempi.
Levò le reti e buttò i pesci ai suoi piedi con gesti di pescatore biblico. Poi volle condurmi fino all’ estremità della palude, e sull’altra riva vidi una rovina, una capanna diroccata con una croce sul muro, una croce enorme e rossa che pareva tracciata col sangue, sotto gli ultimi bagliori del sole al tramonto.
Chiesi:
«Che cos’ è?»
L’uomo prima si segnò, poi rispose:
«Là è morto Giuda.»
Non fui sorpreso, come se mi fossi aspettato quella strana risposta.
Tuttavia insistei:
«Giuda? quale Giuda?»
Rispose:
«L’ebreo errante, signore.»
Lo pregai di raccontarmi la leggenda. Ma era più d’una leggenda; era una storia, quasi recente, poiché compare Joseph aveva conosciuto quell’uomo.
Una volta la capanna era abitata da una specie di mendicante, una donna alta che viveva della pubblica carità. Da chi avesse avuto la capanna, compare Joseph non se lo ricordava più. Una sera un vecchio con la barba bianca, un vegliardo che dimostrava duecento anni e si trascinava a stento, passando chiese l’elemosina a quella poveretta.
Costei disse:
«Sedetevi, vecchio: quello che c’è qui è di tutti, perché viene da tutti.»
Lui si sedette su un sasso davanti alla porta. Spartì con la donna il pane, il giaciglio di foglie, la casa.
Non se ne andò più: aveva finito i suoi viaggi.
Compare Joseph aggiungeva:
«La Santa Vergine ha permesso tutto questo, perché è stata una donna ad aprire la porta a Giuda.»
Difatti quel vecchio vagabondo era l’ebreo errante.
In paese non lo seppero subito, ma presto cominciarono a sospettarlo perché lui camminava sempre, tanto ci era abituato.
C’era un altro motivo che aveva fatto nascere i sospetti: la donna che l’aveva preso in casa era considerata ebrea, perché nessuno l’aveva mai vista in chiesa.
Nel giro d’una trentina di chilometri la chiamavano "l’ebrea", e quando i bambini del paese la vedevano" arrivare a chiedere, gridavano: «Mamma, mamma, è arrivata l’ebrea!».
Lei e il vecchio cominciarono ad andare per i paesi vicini, stendendo la mano a tutte le porte, balbettando suppliche a tutti i passanti. Furono visti a ogni ora del giorno, per i sentieri sperduti, lungo i paesi, oppure mangiando un tozzo di pane all’ombra d’un albero solitario, nel gran calore meridiano.
Nella contrada cominciarono a chiamarlo "compare Giuda".
Un giorno portò nella bisaccia due maialini vivi, che gli erano stati regalati in una fattoria perché aveva guarito il fattore da un male.
Smise di chiedere l’elemosina, occupato a far girare i suoi maiali perché mangiassero, a portarli lungo lo stagno, sotto le querce isolate nelle vallette vicine. Invece la donna vagava sempre in cerca di elemosine, e tutte le sere tornava alla capanna.
Neanche lui andava mai in chiesa, e non l’avevano mai visto segnarsi davanti ai crocifissi. Di questo si parlava molto.
Una notte la sua compagna ebbe la febbre e cominciò a tremare come una vela agitata dal vento. Lui andò fino al paese a cercar medicine, poi si rinchiuse con lei e per sei giorni non lo videro più.
Il parroco, avendo sentito dire che l’“ebrea” stava per morire, andò a recare il conforto della fede alla moribonda , e a portarle gli ultimi sacramenti. Era ebrea? Non lo sapeva. In ogni caso, cercava di salvarle l’anima.
Appena ebbe bussato alla porta, compare Giuda apparve sulla soglia, ansando, con gli occhi lampeggianti, la gran barba mossa come acqua che gronda, e mandò imprecazioni in una lingua ignota, stendendo le magre braccia, per impedire al prete di entrare.
Il parroco cercò di parlare, offrì la sua borsa e le sue cure; ma il vecchio seguitava a insultarlo, e con la mano faceva il gesto di scagliargli pietre. Il prete se ne andò seguito dalle maledizioni del mendicante.
Il giorno seguente la compagna di compare Giuda morì. La seppellì lui stesso davanti alla porta. Era gente così da poco che nessuno se ne curò.
Lo rividero condurre i porci lungo lo stagno e sui pendii. Ricominciò anche a mendicare, per aver da mangiare. Ma non gli davano quasi più nulla, per via delle dicerie che correvano sul suo conto. E tutti sapevano in che modo avesse accolto il parroco.
Sparì. Era la settimana santa. Nessuno se ne occupò.
Il lunedì di Pasqua un gruppo di giovanotti e di ragazze che s’erano spinti a passeggiare fino allo stagno, udirono nella capanna un gran tramestio. La porta era chiusa; i giovanotti la sfondarono e i due maiali schizzarono fuori saltando come caproni. Non furono più visti.
Tutti entrarono e videro per terra dei vecchi stracci, il cappello del mendicante, ossa, sangue secco e rimasugli di carne nelle orbite d’un teschio.
I suoi maiali l’avevano divorato.
E compare Joseph aggiunse:
«Fu di venerdì santo, alle tre del pomeriggio.»
Domandai:
«Come lo sapete?»
Rispose:
«Non c’è alcun dubbio.»
Non cercai di fargli capire come fosse naturale che le bestie affamate avessero mangiato il loro padrone morto improvvisamente nella capanna.
Quanto alla croce sul muro, era apparsa una mattina senza che si sapesse quale mano l’avesse tracciata, in quello strano colore.
Da allora nessuno dubitò più che l’ebreo errante fosse morto in quel luogo.
Lo credetti anch’io, per un’ora.

venerdì 7 dicembre 2018

Boccaccio - Lisabetta da Messina


Quarta Giornata – Storia 5

(trascrizione di Aldo Busi)



Lisabetta e il vaso di basilico

Filomena:

Tre giovani fratelli di Messina, commercianti di mestiere, si erano ritrovati con un bel patrimonio alla morte del padre, che veniva da San Gimignano, e avevano una sorella, Lisabetta, ragazza molto bella e con la testa a posto, alla quale, chissà perché, i tre fratelli non avevano ancora trovato marito.

I tre fratelli avevano in una loro bottega un giovanissimo commesso pisano di nome Lorenzo, di bell’aspetto e modi accattivanti, che si occupava di un po’ di tutto, dall’acquisto alla vendita. A forza di averlo sotto gli occhi, Lisabetta stranamente se ne invaghì. Quando Lorenzo se ne accorse, cominciò una dopo l’altra a lasciare le morose che aveva in giro e a concentrarsi sul pensiero di lei; siccome l’attrazione reciproca era ormai indomabile, non ci misero molto a prender confidenza e passare all’azione.

I loro interludi di sesso appassionato divennero ben presto una consuetudine divorante e sempre meno circospetta e, forse per una certa dose di incoscienza sopravvenuta, una notte accadde che il fratello maggiore di Lisabetta la vide, a sua insaputa, mentre si dirigeva in punta di piedi verso la camera di Lorenzo. Quella rivelazione fu per lui un boccone troppo amaro da ingoiare ma, chiamato a raccolta tutto il suo buon senso, pensò che la cosa più ragionevole fosse starsene zitto e non far niente subito. Trascorse così tutta la notte a rimuginare su questo fatto increscioso increscioso e la mattina dopo raccontò ai fratelli quello che aveva scoperto fra Lisabetta e Lorenzo. Dopo una lunga discussione, decisero di passare la cosa sotto silenzio e con lei di far finta di niente, finché non si fosse presentata l’occasione giusta per troncare di netto la storia senza coinvolgere in uno scandalo né loro stessi né la sorella.

Continuarono così a ridere e a scherzare con Lorenzo come facevano di solito, finché un giorno, con la scusa di volere andare a spassarsela un po’ fuori città, invitarono il ragazzo a seguirli. Durante l’allegra trasferta, capitarono in un posto isolato lontano da ogni passaggio e uccisero Lorenzo, completamente inerme e lontano mille miglia dal benché minimo sospetto, e lì lo seppellirono, senza che nessuno si accorgesse di nulla. Quando ritornarono a Messina, sparsero la voce che lo avevano mandato a sbrigare alcune commissioni. Dapprima la sua assenza non destò alcun sospetto, dato che capitava spesso che i tre fratelli lo mandassero di qui e di là come loro uomo di fiducia, ma Lorenzo non tornava più e Lisabetta, che sentiva crescere una strana nostalgia, cominciò a preoccuparsi e a fare un sacco di domande ai fratelli, finché uno di loro, esasperato dall’insistenza della sorella, le disse:

«Ma si può sapere perché continui a chiedere di Lorenzo? Ti importa così tanto di lui? Se non la finisci con questo interrogatorio, ti rispondiamo noi per le rime.»

Nacque un brutto presentimento nella ragazza, che smise di fare domande e cominciò a vivere in silenzio il suo dolore e la sua tristezza, anche se spesso di notte chiamava Lorenzo a alta voce, fra i singhiozzi, lo pregava di ritornare da lei e, lungi dal rassegnarsi, non abbandonava la speranza di vederselo comparire davanti.

Una notte che Lisabetta a furia di piangere era scivolata nel sonno quasi senza accorgersene, vide in sogno Lorenzo che, pallido e stravolto e con i vestiti strappati e fradici, le diceva:

«Oh, Lisabetta, tu non fai altro che chiamarmi e soffrire per la mia lunga assenza, ma io non merito le tue parole di biasimo. Io non posso più ritornare da te, perché i tuoi fratelli mi hanno ucciso quello stesso giorno che mi hai visto per l’ultima volta.»

Poi le disegnò la mappa di dove l’avevano sotterrato e le chiese di non chiamarlo e di non aspettarlo più e scomparve.

Lisabetta si svegliò di soprassalto e, prestando ciecamente fede alla visione, si mise a piangere disperata.

Il giorno dopo le mancò il coraggio di affrontare i suoi fratelli, ma decise di andare comunque nel luogo indicato da Lorenzo per verificare se le silenti parole del sogno corrispondevano alla realtà; chiese il permesso di fare una passeggiata nei dintorni di Messina con una sua vecchia tata che era al corrente di tutto. Le due donne si precipitarono sul posto, Lisabetta tolse via le foglie morte e, dove il terreno le sembrava meno duro, cominciò a scavare.

Non dovette però rimuovere molta terra per scoprire il cadavere ancora perfettamente conservato del suo infelice amante e capire che quel sogno era stata una vera e propria rivelazione. Nonostante il cuore straziato dalla pena, si rese conto che non era quello il momento di piangere, ah, se avesse potuto si sarebbe portata via il corpo intero per seppellirlo come meritava, ma era impossibile; con un coltello gli tagliò via la testa come meglio poté, la avvolse in un asciugamano, la mise in grembo alla vecchia domestica, ricoprì con la terra il resto del corpo e, senza essere vista da nessuno, ritornò a casa.

Una volta rinchiusasi in camera sua, cominciò a piangere sconsolatamente, lasciando che le lacrime scorressero sopra a lavare la testa, riempiendola di baci in ogni parte. Poi prese una bella terracotta, uno di quei vasi in cui crescono la maggiorana o il basilico, vi collocò la testa avvolta in un drappo di seta, la ricopri di terra e vi piantò parecchi germogli di bellissimo basilico salernitano. Da quel giorno cominciò a innaffiarlo solo con acqua di rose o di fiori d’arancio oppure con le sue lacrime, e prese l’abitudine di sedersi sempre vicino a questo vaso, custode segreto del suo Lorenzo, per guardarlo con occhi persi nei chiaroscuri del rimpianto, finché non si sporgeva di nuovo sopra le piantine di basilico per bagnarle con un nuovo pianto.

Vuoi per l’assiduità delle cure di Lisabetta, vuoi perché la testa putrefatta aveva concimato la terra in modo straordinario, quel basilico diventò magnifico e profumatissimo. I vicini di casa, intanto, avevano notato le strane abitudini della ragazza e un giorno dissero ai fratelli che non riuscivano a spiegarsi dove fosse andata a finire tutta la sua bellezza, gli occhi sembravano scomparsi da tanto si erano infossati:

«Guardate, noi ci siamo accorti che Lisabetta ogni giorno fa così e cosà.»

I fratelli si misero allora a sorvegliarla, e siccome tutte le prediche si rivelavano inutili, decisero di sottrarle la terracotta. Quando Lisabetta scoprì che il suo basilico era scomparso, cominciò a cercarlo, ma poiché era introvabile chiese con insistenza ai suoi fratelli di restituirglielo. Fu come chiedere a un muro, e a furia di piangere e disperarsi, si ammalò, ma nemmeno durante l’infermità smetteva di chiedere la restituzione del suo vaso.

I fratelli non capivano perché questo vaso fosse così importante per la ragazza e vollero vedere che cosa c’era dentro: quando rovesciarono fuori la terra, videro il pezzo di seta e la testa che vi era avvolta e, poiché non era ancora del tutto decomposta, non fecero fatica a riconoscere i riccioli di Lorenzo. I tre ci rimasero a dir poco di sasso e per paura che la faccenda diventasse di pubblico dominio, sotterrarono la testa e, senza dare alcuna giustificazione, troncarono ogni affare e si trasferirono a Napoli.

Lisabetta, invece, senza smettere di piangere e di chiedere del suo vaso, morì con le lacrime negli occhi. Ma dopo, quando la cosa si riseppe, qualcuno compose quella canzone che si canta ancora oggi e che dice:

Ah, chi fu mai il malefico cristiano

che mi rubò quel vaso

del basilico amato siciliano...