martedì 14 maggio 2019

Buzzati - Il bambino tiranno


Dino Buzzati

Il bambino tiranno
(da Sessanta racconti)

II bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna paterni, le cameriere Anna e Ida, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino: non tanto per le lacrime, in fondo trascurabili, quanto per le riprovazioni degli adulti. Infatti, col pretesto dell’amore per il piccolo, essi sfogavano a vicenda i loro spiriti maligni controllandosi e facendosi la spia.
Ma paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Perciò aveva guardato l’uso delle proprie armi nei seguenti termini : per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere, con dei singulti per la verità, che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti, quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa, i dolori alla testa e al ventre non sembrandogli consigliabili per il pericolo di purghe (e già nella scelta del male si rivelava la sua forse inconsapevole perfidia perché, a torto o a ragione, si pensava subito a una paralisi infantile). Oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare; dalla sua gola usciva, ininterrotto e immobile di tono, un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranio. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare, l’uno rinfacciando all’altro di aver fatto esasperare l’innocente.
Per i giocattoli Giorgio non aveva mai avuto una sincera inclinazione. Solo per vanità ne voleva molti e di bellissimi. Il suo gusto era di portare a casa due tre amici e di sbalordirli. Da un piccolo armadio, che teneva chiuso a chiave, estraeva ad uno ad uno, e in progressione di magnificenza, i suoi tesori. I compagni spasimavano di invidia. E lui si divertiva ad umiliarli. «No, non toccare tu che hai le mani sporche... Ti piace eh? Dà qua, dà qua, se no finisci per guastarlo... E tu, dimmi, te ne hanno regalato uno anche a te?»  (ben sapendo che così non era). Dallo spiraglio della porta, genitori e nonni lo covavano teneramente con gli sguardi: «Che caro sussurravano. È proprio un omettino, ormai... Sentitelo come si stima!... Eh, ci tiene lui ai suoi giocattoli, eh ci tiene all’orsacchiotto che gli ha regalato la sua nonna!» Quasi che l’essere geloso dei balocchi fosse per un bimbo una virtù straordinaria.
Basta. Un conoscente portò un giorno dall’America un giocattolo meraviglioso in dono a Giorgio. Era un camion del latte , perfettissima riproduzione degli autofurgoni costruiti per quel servizio; verniciato di bianco e azzurro, coi due conducenti in uniforme che si potevano mettere e levare, le portiere anteriori che si aprivano, i pneumatici alle ruote; nell’interno, infilati uno sull’altro per mezzo di speciali guide, tanti canestrini di metallo, ciascuno contenente otto microscopiche bottiglie sigillate col tappo di stagnola. E sui fianchi due autentiche saracinesche a ghigliottina che, aprendosi, si arrotolavano proprio come quelle vere. Era senza dubbio il giocattolo più bello e singolare di quanti ne possedesse Giorgio, e probabilmente il più costoso.
Ebbene, un pomeriggio il nonno, colonnello in pensione, che in genere non sapeva che cosa fare dell’anima sua, passando dinanzi all’armadio dei giocattoli, tirò quasi per caso, come succede, la manopola dello sportello. Sentì che cedeva. Giorgio l’aveva chiuso a chiave come al solito, ma l’anta gemella, in cui il chiavistello si incastrava, per dimenticanza non era stata fissata coi catenacci in alto e in basso. E così entrambe si aprirono.
Disposti su quattro piani stavano qui in perfetto ordine i giocattoli, tutti ancora lucidi e belli perché Giorgio non li adoperava quasi mai. Giorgio era fuori con Ida, anche i genitori erano usciti, la nonna Elena lavorava a maglia nel salotto. Anna in cucina dormicchiava. La casa era quieta e silenziosa. Il colonnello si guardò alle spalle come un ladro. Poi, con un desiderio da lungo tempo vagheggiato, le sue mani si protesero al camion del latte che nella penombra risplendeva.
Il nonno lo collocò sul tavolo, si sedette e si accinse a esaminarlo. Ma c’è una legge arcana per cui se un bambino tocca di nascosto una cosa dei grandi, questa cosa subito si rompe e simmetricamente, toccato dai grandi, si rompe il giocattolo che pure il bambino aveva senza danni maneggiato per mesi con energia selvaggia. Non appena il nonno, con la delicatezza di un orologiaio, ebbe alzato una delle piccole saracinesche laterali, si udì un clic, un listello di latta verniciata schizzò fuori e il perno su cui la saracinesca si sarebbe dovuta avvolgere ciondolò senza più sostegno.
Col batticuore, il vecchio colonnello si affannò per rimettere le cose a posto. Ma le mani gli tremavano. E gli fu ben chiaro che con la sua nessuna abilità riparare il guasto era impossibile. Né si trattava di una avaria recondita, facile a venir dissimulata. Scardinato il perno, la saracinesca non chiudeva più, pendendo tutta sghemba.
Un disperato smarrimento prese colui che un giorno ai piedi del Montello aveva condotto i suoi cavalleggeri a una disperata carica contro le mitragliatrici degli austriaci. E un brivido gli percorse le vertebre al suono di una voce che pareva quella del giudizio universale : «Gesummaria, Antonio, cos’hai fatto?».
Il colonnello si voltò. Sulla soglia, immobile, sua moglie, Elena, lo fissava con le pupille dilatate. «L’hai rotto, di’, l’hai rotto?»
«Macché, non è... ti dic... non è niente» mugolò il vecchio militare, annaspando con le mani nell’assurdo tentativo di sistemare la rottura. «E adesso? E adesso cosa fai?» incalzò la donna con affanno. «E quando Giorgio se ne accorge? Adesso cosa fai?» «L’ho appena toccato, ti giuro... doveva essere già rotto... Non ho fatto niente, io» cercò miserabilmente di scusarsi il colonnello; e se mai si era illuso di trovare nella moglie una certa solidarietà morale, questa speranza venne meno tanta fu l’indignazione della vecchia: «Non ho fatto non ho fatto, mi sembri un pappagallo!... Si sarà rotto da solo, si capisce!... E fa’ qualcosa almeno, e muoviti, invece di stare là come uno stupido!... Giorgio può essere qui da un momento all’altro... E chi... (la voce le si ingorgava per la rabbia)... e chi ti ha detto di aprire l’armadio dei giocattoli?»
Non occorreva altro perché il colonnello perdesse la testa del tutto. Purtroppo era domenica, impossibile trovare un operaio capace di riparare il camioncino. Intanto la signora Elena, quasi per non restare implicata nel delitto, se n’era andata. Il colonnello si sentì solo, abbandonato, nella ingrata selva della vita. La luce declinava. Tra poco notte, e Giorgio di ritorno.
Con l’acqua alla gola, il nonno allora corse in cucina in cerca di uno spago. Con lo spago, sfilato il tetto del camion, riuscì a fissare le estremità della saracinesca, così che restasse chiusa, pressapoco. Evidentemente essa non si poteva aprire più ma almeno dall’esterno non si notava nulla di anormale. Rimise il giocattolo al suo posto, chiuse l’armadio. Si ritirò nel suo studiolo. Appena in tempo. Tre lunghe scampanellate prepotenti annunciavano il ritorno del tiranno.
Se almeno la nonna avesse tenuto la bocca chiusa. Figurarsi. A ora di pranzo, tranne il piccolo, tutti erano al corrente del disastro comprese le donne di servizio. E anche un bambino meno astuto di Giorgio si sarebbe accorto che nell’aria c’era qualcosa di insolito e sospetto. Due o tre volte il colonnello tentò di avviare una conversazione. Ma nessuno lo aiutava. «Cosa c’è?» domandò Giorgio con la sua naturale improntitudine. «Avete tutti la luna piena ?» «Ah quest’è bella, abbiam la luna piena, abbiamo, ah ah !» fece il nonno, cercando eroicamente di voltare tutto in scherzo. Ma la sua risata si spense nel silenzio.
Il bambino non fece altre domande. Con sagacia addirittura demoniaca sembrò capire che il disagio generale si riferiva a lui; che l’intera famiglia, per qualche motivo ignoto, si sentiva in colpa: e che lui la teneva nelle mani.
Come fece a indovinare? Fu guidato dai trepidanti sguardi dei familiari che non lo lasciavano un istante? O ci fu qualche delazione? Fatto è che, terminato il pranzo, con un ambiguo sorrisetto Giorgio andò all’armadio dei giocattoli. Spalancò gli sportelli, restò un buon minuto in contemplazione quasi sapesse di prolungare cosi l’ansia del colpevole. Quindi, fatta la scelta, trasse dal mobile il camioncino e, tenendolo stretto sotto un braccio, andò a sedersi su un divano, donde fissava ad uno ad uno i grandi, sorridendo.
«Che cosa fai, Giorgino?» disse infine con voce spenta il nonno. «Non è ora di fare la nanna?» «La nanna?» fu la evasiva risposta del nipote che accentuò il ghigno beffardo. «E perché non giochi allora?» osò chiedere il vecchio, a quell’agonia sembrandogli preferibile una rapida catastrofe. «No» fece il bimbo dispettoso «di giocare non ho voglia.» Immobile, aspettò circa mezz’ora, quindi annunciò: «Io vado a letto». E uscì col camioncino sotto il braccio.
Divenne una mania. Per tutto il giorno dopo, e per l’altro successivo, Giorgio non si distaccò un istante dal veicolo. Perfino a tavola volle tenerselo accanto, come non aveva mai fatto prima per nessun balocco. Ma non giocava, non lo faceva andare, né mostrava alcuna voglia di guardare dentro.
Il nonno viveva sulle spine. «Giorgio» disse più di una volta «ma perché ti porti sempre dietro il camioncino se poi non giochi? Che fissazione è questa? Su, vieni qua, fammi vedere le belle bottigliette!» Insomma, non vedeva l’ora che il nipotino scoprisse il guasto, succedesse poi quello che doveva succedere (non osando tuttavia confessare spontaneamente l’accaduto). Tanto gli pesava il tormento dell’attesa. Ma Giorgio era irremovibile. «No, non ho voglia. È mio o non è mio il camion? E allora lasciami stare».
La sera, dopo che Giorgio era andato a letto, i grandi discutevano. «E tu diglielo!» diceva il padre al nonno «piuttosto che continuare in questo modo! E tu diglielo! Non si vive più per questo maledetto camion!» «Maledetto?» protestava la nonna. «Non dirlo neanche per scherzo... il giocattolo che gli è più caro di tutti. Povero tesoro!» II papà non le badava: «E tu diglielo!» ripeteva esasperato. «Avrai il coraggio, tu che hai fatto due guerre, avrai il coraggio, no?»
Non ce ne fu bisogno. Il terzo giorno, comparso Giorgio col suo camioncino, il nonno non seppe trattenersi: «Su, Giorgio, perché non lo fai andare un poco? Perché non giochi? Mi fai senso, sempre con quel coso sotto il braccio!». Allora il bambino si ingrugnì come al delinearsi di un capriccio (era sincero o faceva tutta una commedia?), Poi si mise a gridare, singhiozzando: «Io ne faccio quel che voglio del mio camion, io ne faccio! E finitela di tormentarmi. L’avete capito o no che basta?... Io lo fracasso se mi piace. Io ci pesto sopra i piedi... Là... là, guarda!». Con le due mani alzò il giocattolo e di tutta forza lo scaraventò per terra, poi coi calcagni gli saltò sopra, sfondandolo. Divelto il tetto, il camioncino si schiantò e le bottigliette si sparsero per terra.
Qui Giorgio all’improvviso si arrestò, cessò di urlare, si chinò a esaminare una delle due pareti interne del veicolo, afferrò un’estremità del clandestino spago messo dal nonno alla saracinesca. Inviperito, si guardò intorno, livido: «Chi?» balbettò. «Chi è stato? Chi ci ha messo le mani? Chi l’ha rotto?»
Si fece avanti il nonno, il vecchio combattente, un poco chino. «O Giorgino, anima mia» supplicò la mamma. «Sii buono. Il nonno non l’ha fatto apposta, credi. Perdonagli. Giorgino mio!»
Intervenne anche la nonna : «Ah no, creatura, hai ragione tu. Fagli totò al brutto nonno che ti rompe tutti i giocattoli... Povero innocente. Gli rompono i giocattoli e poi ancora vogliono che sia buono, poverino. Fagli totò al brutto nonno!»
Di colpo Giorgio ritornò tranquillo. Guardò lentamente le facce ansiose che lo circondavano. Il sorriso gli ricomparve sulle labbra.
«L’ho detto io» fece la mamma; «l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al nonno! Guardàtelo che stella!»
Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno; il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. «E guardàtelo che stella... e guardàtelo che stella!...» cantarellò, facendo il verso. Diede un calcio alla carcassa del camioncino che andò a sbattere nel muro. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. «E guardàtelo che stella!» ripeté beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tacquero.


Gramellini: "Tanto morirai come mio padre"


Tanto morirai come mio padre

Corriere della Sera (martedì 14 maggio 2019)
Massimo Gramellini

Paolo Palumbo è un giovane chef sardo. Un giorno il mestolo con cui stava girando il sugo gli è caduto di mano. È così che ha scoperto di avere la Sla. Da allora il fratello Rosario è diventato il suo braccio stellato: in cucina frigge e condisce sotto la supervisione di Paolo. La loro storia intenerirebbe un carroarmato. Invece da qualche tempo sui social fioriscono insulti e auspici di morte perché il ragazzo è stato ammesso a un nuovo protocollo di cure in Israele e ha promosso una raccolta di fondi per pagarselo. Pare che a scrivere i messaggi più acidi («Tanto morirai come morirà mio padre») siano alcuni parenti dei malati che non avevano i requisiti per accedere al protocollo. Anime inselvatichite dal dolore che si accaniscono contro chi soffre, come se una sua eventuale guarigione avesse l’effetto collaterale di accrescere la loro rabbia, anziché di alleviarla con il balsamo della speranza.
La psiche umana è contorta, a volte distorta, ma la Rete enfatizza le sue manifestazioni peggiori e, occupando il centro della scena, altera la percezione della realtà. Perciò vorrei provare a cambiare il punto di vista. Fino a ieri avrei detto: che orrore, in Italia ci sono quarantasette malvagi che se la prendono con un malato di Sla. Adesso penso: che meraviglia, in Italia ci sono milioni di persone meno quarantasette che fanno il tifo per Paolo e i suoi compagni di avventura.



D'Avenia - Il bambino tiranno


Il bambino tiranno

Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera, 13 maggio 2019)

«Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna, le cameriere, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino». Così comincia un racconto di Buzzati del 1954, nel quale narra le tragiche conseguenze dell’incapacità di esercitare l’autorità da parte di adulti che, inseguendo il consenso del loro bambino, finiscono per adorarlo e quindi rovinarlo. Le pagine di Buzzati mi sono tornate in mente il 2 maggio, quando la Camera, approvando la legge che introduce un’ora di educazione civica alle elementari e alle medie, contestualmente abrogava la misura che prevedeva mezzi disciplinari come: la nota sul registro con comunicazione scritta ai genitori, la sospensione, l’esclusione dagli esami o l’espulsione. Un cortocircuito tipico del nostro tempo: potenziare un’educazione civica astratta ma depotenziare l’autorità in atto, come se il suo esercizio, chiaramente non riducibile a quelle sanzioni, significhi fare violenza.
L’adorazione contemporanea del bambino, funzionale alla soddisfazione dell’adulto e che infatti ha come contropartita violenza e sfruttamento, fa dimenticare che il piccolo non è un «idolo» ma un «selvaggio» la cui umanità va educata: ciò che è umano nell’uomo non fiorisce spontaneamente, ma è il risultato di quanto assorbito nell’infanzia e nell’adolescenza, tappe preposte allo scopo di diventare responsabili di sé e del mondo. Il bambino non educato resta un egoista in balia delle sue pulsioni, iracondo e manipolatore come il piccolo tiranno buzzatiano: «Paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere, con dei singulti che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti, quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa; oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare: dalla sua gola usciva un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranio. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare, l’uno rinfacciando all’altro di aver fatto esasperare l’innocente».
La crisi dell’autorità è propria del XX secolo: il ‘68 ne è stato un formidabile acceleratore, ma la crisi ha radici più profonde, come Hannah Arendt aveva già spiegato nel 1961 in Tra passato e futuro (in particolare nei capitoli «La crisi dell’istruzione» e «Che cos’è l’autorità»), dove spiega che, in una cultura in cui la tradizione (ciò che del passato vince l’usura del tempo perché è vero) è disattivata e quindi non viene trasmessa, gli educatori non hanno «un mondo» in cui introdurre i giovani: «Che gli adulti abbiano voluto disfarsi dell’autorità significa che rifiutano di assumersi la responsabilità del mondo in cui hanno introdotto i figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, non siete autorizzati a chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”». Senza un mondo vero da proporre gli adulti vivono il loro ruolo educativo come colpa (violenza) e cercano nel figlio il perdono, ma il bambino «adorato» e «des-autorato», dovendosi autorizzare «da zero» e «da solo», diventa un divino tiranno.
Gli educatori non si sentono più titolati a porre limiti, divieti, doveri, eppure proprio i momenti di opposizione (soprattutto per il bambino di due anni e per l’adolescente), che destabilizzano il genitore, servono per costruire l’autonomia: bambino e adolescente vogliono sapere su cosa fondarsi e così mettono alla prova la solidità del terreno che gli si offre. Compito dei genitori è trovare in sé le ragioni e la credibilità per resistere e accettare la frustrazione della perdita del consenso filiale. La lacuna educativa è alla base dell’aumento di depressioni e dipendenze dei ragazzi: senza la «dipendenza buona» dall’autorità si generano dipendenze surrogate, perché l’uomo non è un essere «assoluto», ma «relativo», cioè bisognoso di relazioni significative. Un esempio è la mancanza di riflessione sull’uso del cellulare, sul quale consiglio l’intelligente, documentato e veloce libro di Stefania Garassini, Smartphone: 10 ragioni per non regalarlo alla prima comunione e magari neanche alla cresima. I genitori che mi dicono «lo hanno tutti, si sentirebbe escluso», mi confermano che il problema è prima di tutto di chi non ha le ragioni per dire «no» e sostenere il conflitto che nasce da un bene più grande, che un 9-10enne non percepisce.
La crisi dell’autorità viene dalla sua confusione con il potere, come mostra l’eliminazione delle sanzioni. Bambini e adolescenti, se non interiorizzano limiti, divieti e doveri, quando è il momento, rimangono infantili e diventano tiranni. L’autorità è invece naturale, si giustifica da sé, dal fatto che io vengo prima di te: il bambino non è un partner dell’educazione, non è un contratto alla pari. Nell’educazione, scrive Arendt: «si decide se amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi». Ma qual è il nostro mondo? Negli anni Settanta i passeggini cambiarono orientamento: il bambino non guardava più il genitore, ma l’esterno: il genitore non faceva più da interprete del mondo dall’alto in basso, ma da accompagnatore. All’obbedisci e poi capirai si sostituì il mettiamoci d’accordo. In questo c’è sì un guadagno: la necessità di dare un senso, che non sia il mero «si è sempre fatto così», a ciò che si pretende, ma spesso, poiché non si sa quale sia questo senso, si lascia decidere il bambino o l’adolescente, gettandolo nello sconforto dell’onnipotenza. Tanti giovani non diventano adulti perché nessuno li ha educati al fatto che non sono padroni assoluti e incontrastati: l’autonomia, infatti, non nasce dall’ignorare limiti e doveri, ma dall’averli sperimentati, interiorizzati e attraversati. Sono i «no» dei miei genitori ad avermi reso forte e più sicuro nelle mie scelte.
Il bambino, dice Arendt, deve essere sì protetto dalle facoltà distruttive del mondo «ma anche il mondo deve essere protetto per non essere devastato dall’ondata di novità che esplode con ogni nuova generazione». Perché? Perché un’educazione senza autorità non «autorizza» il desiderio, senza limite o divieto il desiderio non si costruisce: a che serve crescere, se posso avere tutto e subito e se non esiste qualcosa da raggiungere più tardi? Il desiderio non educato dal gioco di autorizzazione e divieto diventa distruttivo: il soggetto non sa a cosa ancorarsi per fronteggiare la resistenza della vita, non può costruire obiettivi, cioè non ha futuro, si blocca e, per poter vivere, o regredisce o diventa violento. Invece l’autorità è legittimata proprio dal fatto che io sono prima di te, posso garantirti che un giorno anche tu sarai «autore» delle tue azioni. Per fare questo l’educatore è chiamato ad amare veramente, cioè trovare il coraggio di perdere il consenso di chi gli è affidato pur di proteggerlo: sta amando l’uomo/donna che quel bambino/a diventerà, perché l’infanzia non è la pienezza della condizione umana, ma la sua preparazione. Potrà farlo solo se non dipende lui dall’affetto del bambino, reso oggetto della propria soddisfazione anziché soggetto libero, e quindi capace di opposizione, come nel tragico ribaltamento del racconto di Buzzati, in cui è il bambino ad avere autorità sugli adulti: «“L’ho detto, io” fece la mamma; “l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al nonno! Guardatelo, che stella!”. Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno; il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. “E guardatelo che stella… e guardatelo che stella!...” canterellò, facendo il verso. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. “E guardatelo che stella!” ripeté beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tacquero».
Il letto da rifare oggi è quello del coraggio di educare: fate un elenco di «no» che non riuscite a giustificare e per i quali resistere. Chiedetevi perché questi «no» sono buoni per voi e quindi per l’uomo o la donna che vostro figlio/a diventerà. Il vero amore attraversa la negatività e sa darne ragione ai figli, perché la libertà è frutto di conquista. E il nostro compito di educatori è renderli liberi, non schiavi del loro o - peggio ancora - del nostro desiderio.