Dino Buzzati
Il bambino tiranno
(da Sessanta racconti)
II bambino Giorgio,
benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e
intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna
paterni, le cameriere Anna e Ida, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi
capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a
proclamare che un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva al
mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al
pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino: non tanto
per le lacrime, in fondo trascurabili, quanto per le riprovazioni degli adulti.
Infatti, col pretesto dell’amore per il piccolo, essi sfogavano a vicenda i
loro spiriti maligni controllandosi e facendosi la spia.
Ma paurose di per sé
erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini, egli
misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Perciò aveva guardato l’uso delle
proprie armi nei seguenti termini : per le piccole contrarietà si metteva
semplicemente a piangere, con dei singulti per la verità, che sembrava gli
dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti, quando l’azione doveva
prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso e
allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di
una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più
gravi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori
alle ossa, i dolori alla testa e al ventre non sembrandogli consigliabili per
il pericolo di purghe (e già nella scelta del male si rivelava la sua forse
inconsapevole perfidia perché, a torto o a ragione, si pensava subito a una paralisi
infantile). Oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare; dalla sua gola
usciva, ininterrotto e immobile di tono, un grido estremamente acuto, quale noi
adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranio. In pratica non era
possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia
voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare, l’uno rinfacciando
all’altro di aver fatto esasperare l’innocente.
Per i giocattoli
Giorgio non aveva mai avuto una sincera inclinazione. Solo per vanità ne voleva
molti e di bellissimi. Il suo gusto era di portare a casa due tre amici e di sbalordirli.
Da un piccolo armadio, che teneva chiuso a chiave, estraeva ad uno ad uno, e in
progressione di magnificenza, i suoi tesori. I compagni spasimavano di invidia.
E lui si divertiva ad umiliarli. «No, non toccare tu che hai le mani sporche...
Ti piace eh? Dà qua, dà qua, se no finisci per guastarlo... E tu, dimmi, te ne
hanno regalato uno anche a te?» (ben
sapendo che così non era). Dallo spiraglio della porta, genitori e nonni lo
covavano teneramente con gli sguardi: «Che caro sussurravano. È proprio un omettino,
ormai... Sentitelo come si stima!... Eh, ci tiene lui ai suoi giocattoli, eh ci
tiene all’orsacchiotto che gli ha regalato la sua nonna!» Quasi che l’essere
geloso dei balocchi fosse per un bimbo una virtù straordinaria.
Basta. Un conoscente
portò un giorno dall’America un giocattolo meraviglioso in dono a Giorgio. Era
un camion del latte , perfettissima riproduzione degli autofurgoni costruiti
per quel servizio; verniciato di bianco e azzurro, coi due conducenti in
uniforme che si potevano mettere e levare, le portiere anteriori che si
aprivano, i pneumatici alle ruote; nell’interno, infilati uno sull’altro per
mezzo di speciali guide, tanti canestrini di metallo, ciascuno contenente otto
microscopiche bottiglie sigillate col tappo di stagnola. E sui fianchi due
autentiche saracinesche a ghigliottina che, aprendosi, si arrotolavano proprio
come quelle vere. Era senza dubbio il giocattolo più bello e singolare di
quanti ne possedesse Giorgio, e probabilmente il più costoso.
Ebbene, un pomeriggio
il nonno, colonnello in pensione, che in genere non sapeva che cosa fare dell’anima
sua, passando dinanzi all’armadio dei giocattoli, tirò quasi per caso, come
succede, la manopola dello sportello. Sentì che cedeva. Giorgio l’aveva chiuso
a chiave come al solito, ma l’anta gemella, in cui il chiavistello si
incastrava, per dimenticanza non era stata fissata coi catenacci in alto e in
basso. E così entrambe si aprirono.
Disposti su quattro
piani stavano qui in perfetto ordine i giocattoli, tutti ancora lucidi e belli
perché Giorgio non li adoperava quasi mai. Giorgio era fuori con Ida, anche i
genitori erano usciti, la nonna Elena lavorava a maglia nel salotto. Anna in
cucina dormicchiava. La casa era quieta e silenziosa. Il colonnello si guardò
alle spalle come un ladro. Poi, con un desiderio da lungo tempo vagheggiato, le
sue mani si protesero al camion del latte che nella penombra risplendeva.
Il nonno lo collocò sul
tavolo, si sedette e si accinse a esaminarlo. Ma c’è una legge arcana per cui
se un bambino tocca di nascosto una cosa dei grandi, questa cosa subito si rompe
e simmetricamente, toccato dai grandi, si rompe il giocattolo che pure il
bambino aveva senza danni maneggiato per mesi con energia selvaggia. Non appena
il nonno, con la delicatezza di un orologiaio, ebbe alzato una delle piccole
saracinesche laterali, si udì un clic, un listello di latta verniciata schizzò
fuori e il perno su cui la saracinesca si sarebbe dovuta avvolgere ciondolò
senza più sostegno.
Col batticuore, il
vecchio colonnello si affannò per rimettere le cose a posto. Ma le mani gli
tremavano. E gli fu ben chiaro che con la sua nessuna abilità riparare il
guasto era impossibile. Né si trattava di una avaria recondita, facile a venir
dissimulata. Scardinato il perno, la saracinesca non chiudeva più, pendendo
tutta sghemba.
Un disperato
smarrimento prese colui che un giorno ai piedi del Montello aveva condotto i
suoi cavalleggeri a una disperata carica contro le mitragliatrici degli
austriaci. E un brivido gli percorse le vertebre al suono di una voce che pareva
quella del giudizio universale : «Gesummaria, Antonio, cos’hai fatto?».
Il colonnello si voltò.
Sulla soglia, immobile, sua moglie, Elena, lo fissava con le pupille dilatate. «L’hai
rotto, di’, l’hai rotto?»
«Macché, non è... ti dic...
non è niente» mugolò il vecchio militare, annaspando con le mani nell’assurdo
tentativo di sistemare la rottura. «E adesso? E adesso cosa fai?» incalzò la
donna con affanno. «E quando Giorgio se ne accorge? Adesso cosa fai?» «L’ho
appena toccato, ti giuro... doveva essere già rotto... Non ho fatto niente, io»
cercò miserabilmente di scusarsi il colonnello; e se mai si era illuso di
trovare nella moglie una certa solidarietà morale, questa speranza venne meno
tanta fu l’indignazione della vecchia: «Non ho fatto non ho fatto, mi sembri un
pappagallo!... Si sarà rotto da solo, si capisce!... E fa’ qualcosa almeno, e
muoviti, invece di stare là come uno stupido!... Giorgio può essere qui da un
momento all’altro... E chi... (la voce le si ingorgava per la rabbia)... e chi
ti ha detto di aprire l’armadio dei giocattoli?»
Non occorreva altro
perché il colonnello perdesse la testa del tutto. Purtroppo era domenica,
impossibile trovare un operaio capace di riparare il camioncino. Intanto la
signora Elena, quasi per non restare implicata nel delitto, se n’era andata. Il
colonnello si sentì solo, abbandonato, nella ingrata selva della vita. La luce
declinava. Tra poco notte, e Giorgio di ritorno.
Con l’acqua alla gola,
il nonno allora corse in cucina in cerca di uno spago. Con lo spago, sfilato il
tetto del camion, riuscì a fissare le estremità della saracinesca, così che
restasse chiusa, pressapoco. Evidentemente essa non si poteva aprire più ma
almeno dall’esterno non si notava nulla di anormale. Rimise il giocattolo al
suo posto, chiuse l’armadio. Si ritirò nel suo studiolo. Appena in tempo. Tre
lunghe scampanellate prepotenti annunciavano il ritorno del tiranno.
Se almeno la nonna
avesse tenuto la bocca chiusa. Figurarsi. A ora di pranzo, tranne il piccolo,
tutti erano al corrente del disastro comprese le donne di servizio. E anche un
bambino meno astuto di Giorgio si sarebbe accorto che nell’aria c’era qualcosa
di insolito e sospetto. Due o tre volte il colonnello tentò di avviare una
conversazione. Ma nessuno lo aiutava. «Cosa c’è?» domandò Giorgio con la sua
naturale improntitudine. «Avete tutti la luna piena ?» «Ah quest’è bella,
abbiam la luna piena, abbiamo, ah ah !» fece il nonno, cercando eroicamente di
voltare tutto in scherzo. Ma la sua risata si spense nel silenzio.
Il bambino non fece
altre domande. Con sagacia addirittura demoniaca sembrò capire che il disagio
generale si riferiva a lui; che l’intera famiglia, per qualche motivo ignoto,
si sentiva in colpa: e che lui la teneva nelle mani.
Come fece a indovinare?
Fu guidato dai trepidanti sguardi dei familiari che non lo lasciavano un
istante? O ci fu qualche delazione? Fatto è che, terminato il pranzo, con un
ambiguo sorrisetto Giorgio andò all’armadio dei giocattoli. Spalancò gli
sportelli, restò un buon minuto in contemplazione quasi sapesse di prolungare
cosi l’ansia del colpevole. Quindi, fatta la scelta, trasse dal mobile il
camioncino e, tenendolo stretto sotto un braccio, andò a sedersi su un divano,
donde fissava ad uno ad uno i grandi, sorridendo.
«Che cosa fai,
Giorgino?» disse infine con voce spenta il nonno. «Non è ora di fare la nanna?»
«La nanna?» fu la evasiva risposta del nipote che accentuò il ghigno beffardo. «E
perché non giochi allora?» osò chiedere il vecchio, a quell’agonia sembrandogli
preferibile una rapida catastrofe. «No» fece il bimbo dispettoso «di giocare
non ho voglia.» Immobile, aspettò circa mezz’ora, quindi annunciò: «Io vado a
letto». E uscì col camioncino sotto il braccio.
Divenne una mania. Per
tutto il giorno dopo, e per l’altro successivo, Giorgio non si distaccò un
istante dal veicolo. Perfino a tavola volle tenerselo accanto, come non aveva
mai fatto prima per nessun balocco. Ma non giocava, non lo faceva andare, né
mostrava alcuna voglia di guardare dentro.
Il nonno viveva sulle
spine. «Giorgio» disse più di una volta «ma perché ti porti sempre dietro il
camioncino se poi non giochi? Che fissazione è questa? Su, vieni qua, fammi
vedere le belle bottigliette!» Insomma, non vedeva l’ora che il nipotino
scoprisse il guasto, succedesse poi quello che doveva succedere (non osando
tuttavia confessare spontaneamente l’accaduto). Tanto gli pesava il tormento
dell’attesa. Ma Giorgio era irremovibile. «No, non ho voglia. È mio o non è mio
il camion? E allora lasciami stare».
La sera, dopo che
Giorgio era andato a letto, i grandi discutevano. «E tu diglielo!» diceva il
padre al nonno «piuttosto che continuare in questo modo! E tu diglielo! Non si vive
più per questo maledetto camion!» «Maledetto?» protestava la nonna. «Non dirlo
neanche per scherzo... il giocattolo che gli è più caro di tutti. Povero
tesoro!» II papà non le badava: «E tu diglielo!» ripeteva esasperato. «Avrai il
coraggio, tu che hai fatto due guerre, avrai il coraggio, no?»
Non ce ne fu bisogno.
Il terzo giorno, comparso Giorgio col suo camioncino, il nonno non seppe
trattenersi: «Su, Giorgio, perché non lo fai andare un poco? Perché non giochi?
Mi fai senso, sempre con quel coso sotto il braccio!». Allora il bambino si
ingrugnì come al delinearsi di un capriccio (era sincero o faceva tutta una
commedia?), Poi si mise a gridare, singhiozzando: «Io ne faccio quel che voglio
del mio camion, io ne faccio! E finitela di tormentarmi. L’avete capito o no
che basta?... Io lo fracasso se mi piace. Io ci pesto sopra i piedi... Là... là,
guarda!». Con le due mani alzò il giocattolo e di tutta forza lo scaraventò per
terra, poi coi calcagni gli saltò sopra, sfondandolo. Divelto il tetto, il
camioncino si schiantò e le bottigliette si sparsero per terra.
Qui Giorgio all’improvviso
si arrestò, cessò di urlare, si chinò a esaminare una delle due pareti interne
del veicolo, afferrò un’estremità del clandestino spago messo dal nonno alla
saracinesca. Inviperito, si guardò intorno, livido: «Chi?» balbettò. «Chi è
stato? Chi ci ha messo le mani? Chi l’ha rotto?»
Si fece avanti il
nonno, il vecchio combattente, un poco chino. «O Giorgino, anima mia» supplicò
la mamma. «Sii buono. Il nonno non l’ha fatto apposta, credi. Perdonagli.
Giorgino mio!»
Intervenne anche la
nonna : «Ah no, creatura, hai ragione tu. Fagli totò al brutto nonno che ti
rompe tutti i giocattoli... Povero innocente. Gli rompono i giocattoli e poi
ancora vogliono che sia buono, poverino. Fagli totò al brutto nonno!»
Di colpo Giorgio ritornò
tranquillo. Guardò lentamente le facce ansiose che lo circondavano. Il sorriso
gli ricomparve sulle labbra.
«L’ho detto io» fece la
mamma; «l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al
nonno! Guardàtelo che stella!»
Ma il bimbo li esaminò
ancora ad uno ad uno; il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere.
«E guardàtelo che stella... e guardàtelo che stella!...» cantarellò, facendo il
verso. Diede un calcio alla carcassa del camioncino che andò a sbattere nel
muro. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. «E guardàtelo
che stella!» ripeté beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi
tacquero.