Il bambino
tiranno
Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera, 13 maggio
2019)
«Il
bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica,
bontà e intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la
nonna, le cameriere, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma
nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che
un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno
voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di
poter involontariamente provocare il pianto del bambino». Così comincia un
racconto di Buzzati del 1954, nel quale narra le tragiche conseguenze
dell’incapacità di esercitare l’autorità da parte di adulti che, inseguendo il
consenso del loro bambino, finiscono per adorarlo e quindi rovinarlo. Le pagine
di Buzzati mi sono tornate in mente il 2 maggio, quando la Camera, approvando
la legge che introduce un’ora di educazione civica alle elementari e alle
medie, contestualmente abrogava la misura che prevedeva mezzi disciplinari
come: la nota sul registro con comunicazione scritta ai genitori, la
sospensione, l’esclusione dagli esami o l’espulsione. Un cortocircuito tipico
del nostro tempo: potenziare un’educazione civica astratta ma depotenziare
l’autorità in atto, come se il suo esercizio, chiaramente non riducibile a
quelle sanzioni, significhi fare violenza.
L’adorazione
contemporanea del bambino, funzionale alla soddisfazione dell’adulto e che
infatti ha come contropartita violenza e sfruttamento, fa dimenticare che il
piccolo non è un «idolo» ma un «selvaggio» la cui umanità va educata: ciò che è
umano nell’uomo non fiorisce spontaneamente, ma è il risultato di quanto
assorbito nell’infanzia e nell’adolescenza, tappe preposte allo scopo di
diventare responsabili di sé e del mondo. Il bambino non educato resta un
egoista in balia delle sue pulsioni, iracondo e manipolatore come il piccolo
tiranno buzzatiano: «Paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia
propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l’effetto delle varie
rappresaglie. Per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere,
con dei singulti che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più
importanti, quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del
desiderio contrastato, metteva il muso e allora non parlava, non giocava, si
rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata portava la famiglia alla
costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o
simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa; oppure, e forse era
il peggio, si metteva a urlare: dalla sua gola usciva un grido estremamente
acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranio. In
pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta,
con la doppia voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare,
l’uno rinfacciando all’altro di aver fatto esasperare l’innocente».
La
crisi dell’autorità è propria del XX secolo: il ‘68 ne è stato un formidabile
acceleratore, ma la crisi ha radici più profonde, come Hannah Arendt aveva già
spiegato nel 1961 in Tra passato e futuro
(in particolare nei capitoli «La crisi dell’istruzione» e «Che cos’è
l’autorità»), dove spiega che, in una cultura in cui la tradizione (ciò che del
passato vince l’usura del tempo perché è vero) è disattivata e quindi non viene
trasmessa, gli educatori non hanno «un mondo» in cui introdurre i giovani: «Che
gli adulti abbiano voluto disfarsi dell’autorità significa che rifiutano di
assumersi la responsabilità del mondo in cui hanno introdotto i figli. Quasi
che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci
sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che
cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi
alla meglio, non siete autorizzati a chiederci conto di nulla. Siamo innocenti,
ci laviamo le mani di voi”». Senza un mondo vero da proporre gli adulti vivono
il loro ruolo educativo come colpa (violenza) e cercano nel figlio il perdono,
ma il bambino «adorato» e «des-autorato», dovendosi autorizzare «da zero» e «da
solo», diventa un divino tiranno.
Gli
educatori non si sentono più titolati a porre limiti, divieti, doveri, eppure proprio
i momenti di opposizione (soprattutto per il bambino di due anni e per
l’adolescente), che destabilizzano il genitore, servono per costruire
l’autonomia: bambino e adolescente vogliono sapere su cosa fondarsi e così
mettono alla prova la solidità del terreno che gli si offre. Compito dei
genitori è trovare in sé le ragioni e la credibilità per resistere e accettare
la frustrazione della perdita del consenso filiale. La lacuna educativa è alla
base dell’aumento di depressioni e dipendenze dei ragazzi: senza la «dipendenza
buona» dall’autorità si generano dipendenze surrogate, perché l’uomo non è un
essere «assoluto», ma «relativo», cioè bisognoso di relazioni significative. Un
esempio è la mancanza di riflessione sull’uso del cellulare, sul quale consiglio
l’intelligente, documentato e veloce libro di Stefania Garassini, Smartphone: 10 ragioni per non regalarlo
alla prima comunione e magari neanche alla cresima. I genitori che mi
dicono «lo hanno tutti, si sentirebbe escluso», mi confermano che il problema è
prima di tutto di chi non ha le ragioni per dire «no» e sostenere il conflitto
che nasce da un bene più grande, che un 9-10enne non percepisce.
La
crisi dell’autorità viene dalla sua confusione con il potere, come mostra
l’eliminazione delle sanzioni. Bambini e adolescenti, se non interiorizzano
limiti, divieti e doveri, quando è il momento, rimangono infantili e diventano
tiranni. L’autorità è invece naturale, si giustifica da sé, dal fatto che io
vengo prima di te: il bambino non è un partner dell’educazione, non è un
contratto alla pari. Nell’educazione, scrive Arendt: «si decide se amiamo tanto
i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se
stessi». Ma qual è il nostro mondo? Negli anni Settanta i passeggini cambiarono
orientamento: il bambino non guardava più il genitore, ma l’esterno: il
genitore non faceva più da interprete del mondo dall’alto in basso, ma da
accompagnatore. All’obbedisci e poi capirai si sostituì il mettiamoci
d’accordo. In questo c’è sì un guadagno: la necessità di dare un senso, che non
sia il mero «si è sempre fatto così», a ciò che si pretende, ma spesso, poiché
non si sa quale sia questo senso, si lascia decidere il bambino o
l’adolescente, gettandolo nello sconforto dell’onnipotenza. Tanti giovani non
diventano adulti perché nessuno li ha educati al fatto che non sono padroni
assoluti e incontrastati: l’autonomia, infatti, non nasce dall’ignorare limiti
e doveri, ma dall’averli sperimentati, interiorizzati e attraversati. Sono i
«no» dei miei genitori ad avermi reso forte e più sicuro nelle mie scelte.
Il
bambino, dice Arendt, deve essere sì protetto dalle facoltà distruttive del
mondo «ma anche il mondo deve essere protetto per non essere devastato
dall’ondata di novità che esplode con ogni nuova generazione». Perché? Perché
un’educazione senza autorità non «autorizza» il desiderio, senza limite o
divieto il desiderio non si costruisce: a che serve crescere, se posso avere
tutto e subito e se non esiste qualcosa da raggiungere più tardi? Il desiderio
non educato dal gioco di autorizzazione e divieto diventa distruttivo: il
soggetto non sa a cosa ancorarsi per fronteggiare la resistenza della vita, non
può costruire obiettivi, cioè non ha futuro, si blocca e, per poter vivere, o
regredisce o diventa violento. Invece l’autorità è legittimata proprio dal
fatto che io sono prima di te, posso garantirti che un giorno anche tu sarai
«autore» delle tue azioni. Per fare questo l’educatore è chiamato ad amare
veramente, cioè trovare il coraggio di perdere il consenso di chi gli è
affidato pur di proteggerlo: sta amando l’uomo/donna che quel bambino/a
diventerà, perché l’infanzia non è la pienezza della condizione umana, ma la
sua preparazione. Potrà farlo solo se non dipende lui dall’affetto del bambino,
reso oggetto della propria soddisfazione anziché soggetto libero, e quindi
capace di opposizione, come nel tragico ribaltamento del racconto di Buzzati,
in cui è il bambino ad avere autorità sugli adulti: «“L’ho detto, io” fece la
mamma; “l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al
nonno! Guardatelo, che stella!”. Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno;
il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. “E guardatelo che
stella… e guardatelo che stella!...” canterellò, facendo il verso. Poi si mise
freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. “E guardatelo che stella!” ripeté
beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tacquero».
Il
letto da rifare oggi è quello del coraggio di educare: fate un elenco di «no» che
non riuscite a giustificare e per i quali resistere. Chiedetevi perché questi
«no» sono buoni per voi e quindi per l’uomo o la donna che vostro figlio/a
diventerà. Il vero amore attraversa la negatività e sa darne ragione ai figli,
perché la libertà è frutto di conquista. E il nostro compito di educatori è
renderli liberi, non schiavi del loro o - peggio ancora - del nostro desiderio.
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