Tanto morirai come
mio padre
Corriere
della Sera (martedì 14 maggio 2019)
Massimo Gramellini
Paolo
Palumbo è un giovane chef sardo. Un giorno il mestolo con cui stava girando il
sugo gli è caduto di mano. È così che ha scoperto di avere la Sla. Da allora il
fratello Rosario è diventato il suo braccio stellato: in cucina frigge e
condisce sotto la supervisione di Paolo. La loro storia intenerirebbe un
carroarmato. Invece da qualche tempo sui social fioriscono insulti e auspici di
morte perché il ragazzo è stato ammesso a un nuovo protocollo di cure in
Israele e ha promosso una raccolta di fondi per pagarselo. Pare che a scrivere
i messaggi più acidi («Tanto morirai come morirà mio padre») siano alcuni
parenti dei malati che non avevano i requisiti per accedere al protocollo.
Anime inselvatichite dal dolore che si accaniscono contro chi soffre, come se
una sua eventuale guarigione avesse l’effetto collaterale di accrescere la loro
rabbia, anziché di alleviarla con il balsamo della speranza.
La psiche
umana è contorta, a volte distorta, ma la Rete enfatizza le sue manifestazioni
peggiori e, occupando il centro della scena, altera la percezione della realtà.
Perciò vorrei provare a cambiare il punto di vista. Fino a ieri avrei detto:
che orrore, in Italia ci sono quarantasette malvagi che se la prendono con un
malato di Sla. Adesso penso: che meraviglia, in Italia ci sono milioni di
persone meno quarantasette che fanno il tifo per Paolo e i suoi compagni di
avventura.
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