domenica 8 aprile 2018

I giovani del 2018 (A. Rosina)


Cari ragazzi futuri centenari

Meno sognatrice, più determinata: ritratto della prima generazione senza più gap tra reale e virtuale. Parola di demografo


Cosa sappiamo dei diciottenni italiani di oggi? Di quali caratteristiche distintive sono portatori? Come interpretano il loro tempo? Quali desideri, timori, attese hanno rispetto al proprio futuro? I dati più solidi sono quelli demografici, che ci dicono che i diciottenni sono poco più di 570mila, compresi circa 45mila stranieri. Sono nati in un periodo di persistente denatalità, presentano quindi una dimensione meno consistente rispetto alle generazioni precedenti (i 35enni per esempio sono 730mila e i 65enni attorno a 700mila). Rappresentano la parte più matura della Generazione Z. Prima di loro i Millennial, la generazione formata da chi ha compiuto i diciotto anni dal 2000 in poi. La "Zeta" è invece la prima generazione a non aver memoria diretta del Novecento. La prima a collocare tutta la propria biografia nel XXI secolo e a plasmarla in funzione delle novità che presenta. Si trovano a costruire i propri progetti di vita in un mondo complesso e in rapido mutamento, ma anche pieno di contraddizioni e con punti di riferimento molto meno stabili rispetto al passato. Hanno più opportunità di muoversi liberamente tra paesi e continenti, per piacere, studio o lavoro. Ma è anche vero che gli attuali diciottenni si sono socializzati dopo l'il settembre 2001, in un clima di insicurezza prodotta dagli attentati jihadisti. Si sono formati in classi con rilevante presenza di compagni di origine straniera, avendo l'opportunità di sviluppare nuove competenze interculturali. Ma d'altro canto mai così alta è stata nei paesi occidentali la percezione dei rischi legati all'immigrazione, tanto da far crescere le reazioni di chiusura. La Zeta è anche la prima generazione che fin dall'infanzia ha visto usare l'euro. Ma è cresciuta anche con un progetto europeo che ha perso forza e convinzioni della spinta iniziale, diventando via via più fragile e controverso. Le stesse famiglie sono diventate più fragili e più complesse. I tassi di instabilità coniugale, rimasti a lungo molto sotto i livelli degli altri paesi occidentali hanno visto in Italia una forte crescita negli ultimi due decenni. È oggi molto più comune per un adolescente sperimentare la separazione dei genitori e trovarsi, conseguentemente, a vivere in una famiglia monogenitore o ricostituita in cui sono presenti figli da unioni precedenti. Tendono inoltre a crescere, molto più che in passato, in famiglie in cui sono figli unici e avendo ancora tutti i nonni viventi. È anche la prima generazione con genitori e nonni sui social network.
Nessuno ha ben chiaro come sarà il mondo quando la generazione Zeta sarà pienamente entrata nella vita adulta. Lo stesso impatto di Industria 4.0 è controverso nel dibattito pubblico, con posizioni che delineano scenari di aumento di disoccupazione e diseguaglianze, mentre altre enfatizzano le opportunità di poter fare di più e meglio grazie all'innovazione tecnologica. Il rapporto con le nuove tecnologie è senz'altro un elemento distintivo. La Zeta è la prima vera Generazione 2.0. C'è chi ha proposto di usare il nome di iGeneration (iGen) o Digitarians o Touch generation, per sottolineare l'importanza della tecnologia touch, delle App e della connessione permanente. Un impatto che ha ricadute rilevanti nelle modalità (formali e informali) di apprendimento, ma anche di ricerca di occupazione, oltre che sull'innovazione dei processi di produzione e consumo. È la prima generazione che va oltre la divisione tra reale e virtuale; che vive una quotidianità che integra —non senza limiti e contraddizioni— vita online e off-line. Relazioni, appartenenze e scelte rispondono sempre meno a criteri guida predefiniti e sono continuamente rimesse in discussione. Il bisogno di punti di riferimento, seppur non rigidi, però rimane, come descrive il volume in uscita dell'Istituto Toniolo Generazione Z. Guardare il mondo con fiducia e speranza edito da Vita&Pensiero.
I Millennial, come evidenziano molti studi, sono partiti da una spiccata fiducia in sé stessi, con una forte determinazione nel contribuire a cambiare positivamente il mondo, con aspettative elevate sul proprio destino sociale. Si sono però scontrati con una realtà, nella fase di transizione alla vita adulta, molto più ostile e ostica di quanto preventivato. La Zeta è invece la prima generazione del secondo dopoguerra a cui già fin dall'adolescenza è stata tramessa l'idea che difficilmente riuscirà a conquistare migliori condizioni di benessere rispetto ai propri genitori. I diciottenni di oggi hanno, inoltre, visto la crisi economica investire in pieno i Millennial. Sono quindi più disillusi, partono con minori aspettative ma non sono meno determinati. Tendono ad essere più cauti e pragmatici, meno sognatori rispetto al futuro ma più concreti rispetto al presente. Vivranno, auspicabilmente, la transizione alla vita adulta nella fase di ripresa dalla crisi economica e potrebbero diventare protagonisti di una nuova fase di crescita. Più in generale, formare e rafforzare conoscenze e competenze utili per interpretare e gestire il cambiamento è ciò che più oggi serve a una generazione che arriverà a vivere in media cento anni, che deve mettere le basi di una età adulta in un mondo molto diverso dall'attuale e inventarsi una fase anziana attiva del tutto inedita rispetto al passato.

(Alessandro Rosina, la Repubblica, 1 aprile 2018)


I giovani del 2018 (S. Viscardi)


Leggere Busi sulla chat

Sì, grazie a Internet è tutto più veloce ma dolore e amore, giura la youtuber e scrittrice, sono gli stessi di ogni età

di Sofia Viscardi


Il punto è questo. Chissà se qualcuno lo capisce cosa significa dare il massimo e non essere comunque mai abbastanza? E questo riguarda la scuola, l'adolescenza, gli amici e, naturalmente, l'amore. È tutta una questione di essere abbastanza. E io, come molti di noi, non sono mai abbastanza un cazzo. Abbastanza brava, bella, dolce, cattiva, socievole, interessante, simpatica, figa, affascinante. Mai abbastanza e basta. Abbastanza femmine. Abbastanza maschi. In Abbastanza, il mio nuovo romanzo, Leo, il ripetente, figo e dannato come tutti i ripetenti, di nuovo in corsa per l'esame di maturità, cita, per darsi delle arie, i due incipit più belli sulla solitudine dell'adolescenza che la letteratura mi abbia fatto conoscere. Tra poco tempo anch'io compirò vent'anni e anch'io, come Leo, il mio personaggio alle prese con il tema della maturità, che io stessa ho sostenuto quest'anno, "non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita" secondo Paul Nìzan di Aden Arabia. Il secondo incipit è quello magnifico di Aldo Busi nel suo Il seminario sulla gioventù che dice: "Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza". Invece succede che noi del mondo dell'abbastanza siamo sempre connessi, tutti presenti, nello spazio e nel tempo, ma non per questo emotivamente meno soli. Coi social abbiamo la possibilità di fare esperienza avvicinandoci il lontano e allontanandoci il vicino. Con internet possiamo ricordare tutto. Non era mai successo prima, nel mondo analogico. Penso allora che per noi digitali anche i rapporti tra sessi opposti vadano diversamente da quando abbiamo la possibilità di comunicarci le cose attraverso tanti mezzi differenti. E di continuo. Ci vogliamo lo stesso bene, questo sì, come una volta le nostre madri, ma ce lo diciamo in modo diverso. La distanza tra maschio e femmina si è accorciata da quando gli stereotipi di un tempo sono stati abbattuti. Non è più necessariamente il maschio a dover fare il primo passo e il rapporto d'amicizia è molto più frequente anche tra uomo e donna. Senza fraintendimenti o stranezze. Ci consideriamo a pari livello, e gli interessi in comune sono sempre di più. Le ragazze possono seguire il calcio e i maschi i programmi di cucina, per fare un banale esempio, senza venire giudicati o guardati in modo strano. È sempre più normale che tutti possano interessarsi a tutto senza che qualcosa sia tipicamente "maschile" o "femminile". Tra limiti infiniti, e orizzonti vicini è tutto abbastanza relativo. Sfatiamo il mito che le ragazze nel duemiladiciotto stiano ancora a casa ad aspettare il principe azzurro o un mazzo di rose. È tutto più semplice nell'era in cui le cose siamo abituati a dircele costantemente. L'amicizia è fondamentale, un continuo confidarsi, anche quando si è lontani. E l'amore è sincero, un po' più veloce, perché i messaggi fanno prima delle lettere, ma sempre amore è. È anche vero che aumentati i mezzi e le connessioni aumentano anche i problemi-inesistenti-apparentemente-catastrofici tipici della nostra giovane età, e all'improvviso una non-risposta su Whatsapp diventa un chiaro segnale rosso lampeggiante di panico. Ed è una tragedia, per circa dodici minuti, fino a quando un nuovo stimolo non viene a salvarci. Una montagna russa di emozioni e di passioni che restano però forti, pulite e vere. Anche se le dinamiche sono differenti e i tempi accelerati dalla centrifuga della simultaneità e della puntualità dell'istante. Non possiamo certo rinunciare all’uso dei social perché equivarrebbe ad una sorta di esclusione, appunto, sociale. Il punto è che ci si vuole bene davvero, quello non è cambiato. Ci sono positività, gioia, curiosità, ma anche paura per ciò che accadrà. Succede. Abbastanza.

(Sofia Viscardi, la Repubblica, 1 aprile 2018)


giovedì 5 aprile 2018

I giovani del 2018 (E. Affinati)


Le mille vite dei diciottenni

Claudio atterra tutte le sere a Londra-Heathrow: gli piace farlo con visibilità prossima allo zero, è talmente concentrato che nessuno potrebbe staccarlo dal simulatore sullo schermo: men che mai sua madre capace di sgolarsi pur di chiamarlo a tavola. Michele dice che vuole fare l’attore ma se legge un testo si mangia tutte le esse e poi sta cambiando il timbro di voce e non sappiamo come declamerà Shakespeare l’anno prossimo: restiamo in fervida attesa. Eleonora la vedo bene quando disegna i samurai, non foss’altro per i fiocchetti che gli mette in testa con singolare scelta creativa di contrapposizione estetica rispetto alla triste armatura che li imprigiona. Jacopo spacca le bottiglie di birra nel giardino sotto casa e qualche volta dovrà affrontare le conseguenze prodotte dalla sua energia propulsiva. Francisca la mattina svolge il tirocinio come infermiera all’ospedale, poi mangia un panino veloce e viene da noi a insegnare l’italiano ai suoi coetanei arabi: anche lei ha alle spalle più o meno la loro stessa storia di traumi e abbandoni, questo l’avvantaggia in un modo imperscrutabile ma sicuro. Ilario diceva di essere fascista, s’era fatto la boccia pelata, ma poi giocava a pallone con gli egiziani appena arrivati in Italia: discutevano di Salah al tempo in cui lui stava nella Roma. Di chi vogliamo parlare? Degli studenti del liceo Manara di Roma che mi hanno invitato all’assemblea d’istituto e quando gli ho raccontato della nostra scuola di lingua per immigrati sono venuti a vederla e adesso alcuni stanno facendo volontariato il pomeriggio senza pensare all’alternanza scuola-lavoro, no, proprio in quanto interessati all’esperienza in sé? L’attenzione di certe loro occhiate nella grande sala d’istruzione dove li ho riuniti, un centinaio di Mohamed e Faride insieme ad altrettanti Alberti e Manuele, vale da sola più di un intero convegno sull’integrazione.

Oppure vogliamo raccontare di quel ragazzo dell’istituto professionale che ha provato a diventare lui stesso docente per un paio d’ore? Spericolata avanguardia pedagogica, ci ha dato una notevole soddisfazione. Siccome frequenta i corsi dell’alberghiero, gli avevo chiesto cosa mi avrebbe preparato per cena se avesse potuto. ‘"Na bella carbonara, professò!". Era davvero simpatico. Così l’abbiamo posto di fronte a un africano non più giovane, analfabeta, che avrebbe potuto essere suo padre. Questo imprevedibile adolescente si è talmente immedesimato nell’azione didattica che quando gli ho chiesto di alzarsi perché ci mancavano le sedie, l’attempato allievo al quale si stava rivolgendo ha protestato: "No, non me lo togliere, lo voglio io questo qui". Insomma gli piacevano le spiegazioni del pischelletto. Sono andato dalla sua professoressa per saperne di più: come si comporta a scuola? Lei, sorpresa quanto me, ha detto che in classe è uno dei peggiori: ha problemi di sillabazione, non resta concentrato nemmeno per cinque minuti e quest’anno rischia la bocciatura.

Essere giovani nel 2018 non è mai la stessa storia. C’è anche Mattia che non sai dove metterlo perché sembra avere il fuoco addosso e combina quasi sempre sfracelli, tipo ieri: durante la ricreazione ha chiuso dentro il bagno Pasquale e se ne è pure vantato. Per poco non l’hanno sospeso. Lui e Stefano fanno il diavolo a quattro, chissà magari li avrete visti in certi sabati dalle parti dell’Ostiense: sputano dal ponte contro i turisti. Sono inquieti e pericolosi.
Non ho mai creduto alle rappresentazioni statistiche, ai grafici che illustrano le tendenze, agli schemi sociologici. Per me esistono solo gli individui: presi uno per uno possono contraddire ogni interpretazione corrente. In particolare i cosiddetti diciottenni, sui quali da sempre si costruiscono i titoli di giornale, sembrano fatti apposta per rovesciare gli stereotipi. Mandare a monte la partita. Cos’è un ragazzo se non esattamente questo? Uno che ti ribalta. Che ti conduce in un luogo non previsto. Che ti smentisce. Che ti lascia sul posto. La schiuma dell’onda quando batte sullo scoglio. Non è proprio quello il suo mestiere? Ad esempio si dice che i giovani non leggano. O che lo facciano in modo nuovo: frammentario. E allora perché Massimo ha voluto una lista di romanzi imprescindibili? Lo vedevo pronto, con gli occhi scintillanti, è stato naturale chiedergli cosa volesse diventare nella vita. E lui ha sparato: lo scrittore. Apriti cielo! Sono partito in quarta: cosa hai letto finora? Cosa hai scritto? Cosa pensi? Come vivi? Come t’emozioni? In cosa credi? Tutte le vecchie domande. I soliti sogni. I remoti splendori. Gli antichi sentieri. Le glorie dei nostri padri. Un mondo perduto. Andato a fondo. Morto per sempre, pensano alcuni, forse resuscitato nel suo sguardo acceso? A quel punto ero diventato io il diciottenne. E lui, alla maniera del vero saggio, mi ha messo al muro trascinandomi fuori dal campo di gioco con titoli assurdi, nomi irriferibili, citazioni strampalate, combinazioni che mai mi sarebbero venute in mente. Faremmo presto a dire che quella tavolozza di brutti colori impastati gli uni con gli altri era soltanto chincaglieria: e se invece fosse la verità? È successo quello che doveva accadere: il giorno dopo aveva già cambiato idea. Voleva fare un’altra cosa, non so più nemmeno quale.

(Eraldo Affinati, la Repubblica, 1 aprile 2018)


I giovani del 2018 (M. Serra)

Che cosa hanno in testa i diciottenni del 2000

Sono i primi ragazzi a non aver vissuto il ’900. La chiamano Generazione Z. Oppure iGeneration: tutta Internet e digitale. Ma chi si nasconde dietro le etichette? E soprattutto: che cosa ne pensano loro? Siamo andati a scoprire quello che leggono, guardano, ascoltano (e sognano). E abbiamo dato la parola a uno scrittore, appunto, diciottenne: a confronto con un papà che di Sdraiati & dintorni se ne intende.

Dire che Rocco è un "giovane scrittore" è quasi una battuta, avendo Rocco diciotto anni, non uno di più non uno di meno. Circostanza che rende pleonastica, e quasi ridicola, ogni considerazione di carattere "generazionale". Sarebbe come dire di Camilleri che appartiene alla categoria dei "vecchi scrittori". Dopo una breve pausa, quell’inespugnabile vegliardo ti domanderebbe, beffardo: "E lei da che cosa lo deduce?".
Dall’altro bandolo del lungo cammino dell’età, quello iniziale, il ragazzo Rocco Civitarese a suo modo è ugualmente imperturbabile. Magari ha già metabolizzato lo stupore altrui, di fronte alla sua oggettiva precocità, e ha imparato come disinnescarlo. Sta di fatto che, quando dice che il suo primo romanzo che arriva in libreria (Giaguari invisibili, Feltrinelli) è preceduto da altre sette opere brevi e meno brevi, non ancora pubblicate; che ha cominciato a scrivere a quindici anni, dopo avere letto Niccolò Ammaniti, e non ha più smesso; che per scrivere le sue cose ha dovuto sottrarre tempo allo studio (fa l’ultimo anno di liceo classico a Pavia), ma senza gravi conseguenze sul rendimento scolastico; capisci in fretta che lui vive la scrittura con una naturalezza che disinnesca parecchie delle domande che avevo in animo di fargli, a proposito della sua età indecorosamente bassa. Il "giovane scrittore" è certamente e prima di ogni altra cosa uno scrittore che sa di esserlo, come avevo sospettato leggendo il suo libro ancora in bozze. Diciamo che il cerimoniale delle presentazioni tra un sessantenne e un non ancora ventenne si esaurisce nella mia premura di adulto - "non avrai mica saltato scuola, per venire qui stamattina?" - e nel suo alibi di ferro: doveva comunque farlo perché è in partenza per Roma per affrontare i test di ingresso di medicina alla Cattolica, dunque avrebbe ugualmente "bigiato", come diciamo noi nordisti.
Lui è di Pavia, ed è a Pavia, lungo le sponde del sempre presente Ticino, che si dipana la storia del gruppo di ragazzi - i "giaguari invisibili", da un verso della Szymborska - protagonisti del romanzo. Affidato a un io narrante (Pietro Mazzoccone, un alter ego di origini abruzzesi come l’autore) è però una storia di gruppo e anzi di branco, ragazzi sulle soglie dell’età adulta, arrivati in fondo alla scuola e dunque alla fine dell’adolescenza, riluttanti di fronte alla vita che sta per richiamarli all’ordine. I loro amori, le loro ambizioni, i loro incidenti. Un punto di vista fortemente maschile, con la vivezza di un paio di personaggi femminili a tirare le fila della trama e a scompaginare il branco. E un’incombente malinconia - l’addio alla scuola ovvero al campo della prima giovinezza, quella ancora intrisa di infanzia - che mi ha fatto venire in mente, e lo dico a Rocco, I ragazzi della via Pâl. Libro che ha letto e straletto, mi dice. Insieme a Robinson Crusoe forse il più consumato. Poi John Fante, tutto quanto, quasi a memoria, e Philip Roth, dal Lamento di Portnoy in qua. Sono letture della mia giovinezza, e mi sorprendono anche altre sue letture di formazione: per esempio Corto Maltese e i Peanuts, ai quali poi aggiunge, bontà sua, anche Zerocalcare, che insieme ad Ammaniti mi aiuta a rimettere un poco in ordine la cronologia degli autori, e dei gusti, e delle generazioni...
Rocco non oppone alcuna resistenza quando gli dico: ma tu hai più o meno le stesse letture dei tuoi genitori. Che poi sono anche le mie... «Sono stati intelligenti - risponde sorridendo - perché mi hanno fatto leggere ma in modo subdolo, senza darmi mai l’impressione che fossero loro a decidere per me». Però gli adulti, gli dico, nel tuo libro sono figure inesistenti, salvo la rapidissima e scialba apparizione, seguita da una meritata sparizione, di un padre inutile che legge la Repubblica e una madre petulante che propina broccoli a suo figlio.
Qui arriva la conferma che Rocco è veramente uno scrittore: ovvero un manipolatore della realtà per scopi letterari. «Io non ho mai lanciato broccoli contro mia madre, ma mi serviva, in questo libro, che gli adulti fossero dei rompicoglioni. La famiglia per me ha contato più della scuola, per farmi crescere e per farmi conoscere un sacco di cose, ma io sono io e il mio personaggio è il mio personaggio. E non è la sola forzatura che ho dovuto compiere, rispetto alla realtà, diciamo così all’autobiografia. Per esempio i social, gli smartphone, lo stare tutto il giorno connessi, nel libro non sono molto presenti: molto meno che nella vita reale. Se avessi scelto di rispecchiare fedelmente la realtà, tre pagine su dieci sarebbero state a base di Facebook e di Instagram. Soprattutto Instagram, perché Facebook ormai lo usiamo pochissimo. Ma dal punto di vista letterario i social sono deludenti, non mi interessano, mi sono profondamente antipatici. Dunque li ho usati poco».
Non gli interessava - dunque - una "presa di posizione" sui rapporti tra generazioni, o sullo stato della sua. Gli interessava scrivere un romanzo, il suo romanzo, con quei protagonisti e solo quelli. Si dilunga parecchio sulla scelta dei nomi e dei cognomi, sulla fatica che ha fatto per sceglierli, mi torna in mente quello che scrisse - sull’importanza dei nomi dei protagonisti - Giuseppe Pontiggia; ci si ritrova, parlando con Rocco, sempre più dentro un’attitudine, una vocazione, un mestiere - la scrittura - che allontana inevitabilmente dalle etichettature "di generazione". Ma dopotutto sono uno nato a metà del Novecento che sta parlando con uno nato nel Duemila, e anche se tutti e due amiamo Il lamento di Portnoy e Corto Maltese provo a liberarmi della istintiva complicità che mi suscita uno scrittore-scrittore, in mezzo all’orgia di sociologia che ci asfissia (da "collega" gli confido che Gli sdraiati venne accolto da una bordata di ciance sui "genitori sessantottini" che avrebbe ammazzato anche un bue, e non c’entrava nulla, con quel romanzo; non deve spaventarsi, dunque, quando verrà sottoposto a interrogatori multipli su "che cosa pensa della sua generazione". Lui non deve pensare, lui deve solamente scrivere. Siccome è gentile, nella dedica che mi fa sul suo libro mi ringrazia per "i consigli").
Comunque faccio il giornalista e gli dico che la politica, nel suo libro, non esiste, che non esiste la società, che esistono solo l’adrenalina, il testosterone, l’eros. Le sue pagine sono, da questo punto vista, molto meno acerbe di quello che ci si aspetterebbe da un diciottenne (si sentono Ammaniti, Roth, John Fante). Ma pur sempre rinchiuse dentro il "sé", un sé collettivo ma indifferente a ogni altro stimolo, o punto di riferimento...
«La politica è entrata nella nostra vita solo perché il 4 di marzo ci sono state le elezioni, e parecchi di noi avevano già diciotto anni. Ma non riesco a considerarla un grande argomento per un libro». Qui Rocco mi sembra avere quasi uno sguardo di scuse, avverte che c’è, stavolta sì, uno scarto quasi irrimediabile tra il signore sessantenne che gli sta davanti e lui, i suoi amici, i suoi libri. La politica non è tale, tra i diciottenni di Pavia, da meritare narrazione, e a pensarci meglio non è che le vada molto meglio altrove, alla politica. Non è che abbia molti mentori anche nelle fasce di età meno recenti, e teoricamente meno individualiste…
A rappresentare il fluire della vita anche al di fuori delle vicende individuali, il solo grande elemento collettivo nel romanzo di Rocco è il fiume: un fiume scritto bene, forse benissimo, il Ticino fatto d’acqua che scorre e di rive dove ci si incontra, ci si insegue e ci si batte, come nella "battaglia" finale, il capitolo che più di altri mi ha ricordato ragazzi vissuti moltissimo tempo prima, quelli della via Pâl. Là c’era l’epica (compresa la morte del giovane "soldato"), qui soprattutto l’eros, un eros molto disinibito, raccontato con confidente normalità e sovente con molto humour.
A proposito di humour, gli chiedo come sia possibile che nel suo libro sia citato Riccardo Cocciante. Mi risponde «non è colpa mia, me l’ha fatto ascoltare mio padre».

(Michele Serra, la Repubblica, 1 aprile 2018)


Materiali di scrittura 2AG (marzo 2018)

Riscrivi le seguenti frasi


(Correggi la punteggiatura, l’ortografia e il lessico e riscrivi la frase modificando le parti sottolineate –ma non solo!- nella forma e nelle scelte lessicali, dividendo le frasi troppo lunghe e cercando di renderle chiare e scorrevoli)



L’esempio più esplicativo, sulle onde dell’attualità, è il femminicidio: quando le donne (la maggior parte) sono vittime di violenza da parte di mariti o compagni, tendono a fidarsi nuovamente di loro a seguito di nuove scuse e promesse, quando in realtà dovrebbero correre a denunciarli.
(lessico, punteggiatura, sintassi contorta)


Un ragazzo aveva iniziato a scriversi con una ragazza, avevano instaurato un rapporto online attraverso dei messaggi.
(lessico; struttura della frase)


Tutto questo vorrei ricollegarlo alla frase…
(pleonasmo; uso di “questo”)


Rispetto a questa massima penso che sia vera ma solo parzialmente.
(struttura della frase)


A loro mettiamo in mano qualcosa, non per forza importante, ma sicuramente essenziale.
(lessico; costruzione)


Chiunque è disposto a fidarsi di qualcuno: chi si fida del figlio, dell’amico, della sorte, del cane… è impressionante pensare che fidarsi in realtà dovrebbe essere più difficile che amare.
(uso dei pronomi; connettivi)


Imparare a fidarsi credo che sia una delle cose più difficili in assoluto.
(struttura)


Ci fidavamo di nostra madre quando nel grembo sentivamo il suo calore e la sua voce che ci proteggeva.
(uso del possessivo; concordanza)


La mia amica mi ha tradito e ha perso completamente la fiducia in me.
(lessico e costruzione)


La fiducia è una cosa molto importante, senza di essa non ci sarebbe nessun tipo di legame tra le persone, vivendo tutti nella paura di essere pugnalati alle spalle.
(uso del gerundio; lessico)


Una simile affermazione avrebbe potuto tornarmi utile.
(uso dell’ausiliare)


In questa scena del capitolo otto, quando viene scoperto il piano di Renzo e Lucia da Don Abbondio, questo scaglia contro la sposa un tappeto, affinche non riesca a parlare, e questa non riesce a toglierselo.
(uso del numerale; passivo; pronomi, ortografia; struttura della frase; maiuscole)


Spesso, durante le lezioni riguardo “I Promessi Sposi”, uno degli argomenti messi più in discussione, riguardo le scelte dell’autore per il suo romanzo, è la caratterizzazione di alcuni personaggi, in particolare Lucia.
(lessico; struttura della frase)


Questo mio “pensiero” è stato approvato anche dalla Monaca di Monza.
(lessico)


Egli è entrato nel clero non per vocazione, ma bensì per godere dei privilegi…
(connettivo)


I giovani vengono indirizzati all’uso dell’Italiano. Questo perché nelle scuole viene insegnato l’italiano.
(maiuscola; sintassi del periodo)


Oggi come oggi viviamo in un’epoca dove non è più necessario.
(uso di dove; lessico)


Sono convinta del fatto che, il dialetto possa essere considerato una lingua.
(punteggiatura)