giovedì 5 aprile 2018

I giovani del 2018 (M. Serra)

Che cosa hanno in testa i diciottenni del 2000

Sono i primi ragazzi a non aver vissuto il ’900. La chiamano Generazione Z. Oppure iGeneration: tutta Internet e digitale. Ma chi si nasconde dietro le etichette? E soprattutto: che cosa ne pensano loro? Siamo andati a scoprire quello che leggono, guardano, ascoltano (e sognano). E abbiamo dato la parola a uno scrittore, appunto, diciottenne: a confronto con un papà che di Sdraiati & dintorni se ne intende.

Dire che Rocco è un "giovane scrittore" è quasi una battuta, avendo Rocco diciotto anni, non uno di più non uno di meno. Circostanza che rende pleonastica, e quasi ridicola, ogni considerazione di carattere "generazionale". Sarebbe come dire di Camilleri che appartiene alla categoria dei "vecchi scrittori". Dopo una breve pausa, quell’inespugnabile vegliardo ti domanderebbe, beffardo: "E lei da che cosa lo deduce?".
Dall’altro bandolo del lungo cammino dell’età, quello iniziale, il ragazzo Rocco Civitarese a suo modo è ugualmente imperturbabile. Magari ha già metabolizzato lo stupore altrui, di fronte alla sua oggettiva precocità, e ha imparato come disinnescarlo. Sta di fatto che, quando dice che il suo primo romanzo che arriva in libreria (Giaguari invisibili, Feltrinelli) è preceduto da altre sette opere brevi e meno brevi, non ancora pubblicate; che ha cominciato a scrivere a quindici anni, dopo avere letto Niccolò Ammaniti, e non ha più smesso; che per scrivere le sue cose ha dovuto sottrarre tempo allo studio (fa l’ultimo anno di liceo classico a Pavia), ma senza gravi conseguenze sul rendimento scolastico; capisci in fretta che lui vive la scrittura con una naturalezza che disinnesca parecchie delle domande che avevo in animo di fargli, a proposito della sua età indecorosamente bassa. Il "giovane scrittore" è certamente e prima di ogni altra cosa uno scrittore che sa di esserlo, come avevo sospettato leggendo il suo libro ancora in bozze. Diciamo che il cerimoniale delle presentazioni tra un sessantenne e un non ancora ventenne si esaurisce nella mia premura di adulto - "non avrai mica saltato scuola, per venire qui stamattina?" - e nel suo alibi di ferro: doveva comunque farlo perché è in partenza per Roma per affrontare i test di ingresso di medicina alla Cattolica, dunque avrebbe ugualmente "bigiato", come diciamo noi nordisti.
Lui è di Pavia, ed è a Pavia, lungo le sponde del sempre presente Ticino, che si dipana la storia del gruppo di ragazzi - i "giaguari invisibili", da un verso della Szymborska - protagonisti del romanzo. Affidato a un io narrante (Pietro Mazzoccone, un alter ego di origini abruzzesi come l’autore) è però una storia di gruppo e anzi di branco, ragazzi sulle soglie dell’età adulta, arrivati in fondo alla scuola e dunque alla fine dell’adolescenza, riluttanti di fronte alla vita che sta per richiamarli all’ordine. I loro amori, le loro ambizioni, i loro incidenti. Un punto di vista fortemente maschile, con la vivezza di un paio di personaggi femminili a tirare le fila della trama e a scompaginare il branco. E un’incombente malinconia - l’addio alla scuola ovvero al campo della prima giovinezza, quella ancora intrisa di infanzia - che mi ha fatto venire in mente, e lo dico a Rocco, I ragazzi della via Pâl. Libro che ha letto e straletto, mi dice. Insieme a Robinson Crusoe forse il più consumato. Poi John Fante, tutto quanto, quasi a memoria, e Philip Roth, dal Lamento di Portnoy in qua. Sono letture della mia giovinezza, e mi sorprendono anche altre sue letture di formazione: per esempio Corto Maltese e i Peanuts, ai quali poi aggiunge, bontà sua, anche Zerocalcare, che insieme ad Ammaniti mi aiuta a rimettere un poco in ordine la cronologia degli autori, e dei gusti, e delle generazioni...
Rocco non oppone alcuna resistenza quando gli dico: ma tu hai più o meno le stesse letture dei tuoi genitori. Che poi sono anche le mie... «Sono stati intelligenti - risponde sorridendo - perché mi hanno fatto leggere ma in modo subdolo, senza darmi mai l’impressione che fossero loro a decidere per me». Però gli adulti, gli dico, nel tuo libro sono figure inesistenti, salvo la rapidissima e scialba apparizione, seguita da una meritata sparizione, di un padre inutile che legge la Repubblica e una madre petulante che propina broccoli a suo figlio.
Qui arriva la conferma che Rocco è veramente uno scrittore: ovvero un manipolatore della realtà per scopi letterari. «Io non ho mai lanciato broccoli contro mia madre, ma mi serviva, in questo libro, che gli adulti fossero dei rompicoglioni. La famiglia per me ha contato più della scuola, per farmi crescere e per farmi conoscere un sacco di cose, ma io sono io e il mio personaggio è il mio personaggio. E non è la sola forzatura che ho dovuto compiere, rispetto alla realtà, diciamo così all’autobiografia. Per esempio i social, gli smartphone, lo stare tutto il giorno connessi, nel libro non sono molto presenti: molto meno che nella vita reale. Se avessi scelto di rispecchiare fedelmente la realtà, tre pagine su dieci sarebbero state a base di Facebook e di Instagram. Soprattutto Instagram, perché Facebook ormai lo usiamo pochissimo. Ma dal punto di vista letterario i social sono deludenti, non mi interessano, mi sono profondamente antipatici. Dunque li ho usati poco».
Non gli interessava - dunque - una "presa di posizione" sui rapporti tra generazioni, o sullo stato della sua. Gli interessava scrivere un romanzo, il suo romanzo, con quei protagonisti e solo quelli. Si dilunga parecchio sulla scelta dei nomi e dei cognomi, sulla fatica che ha fatto per sceglierli, mi torna in mente quello che scrisse - sull’importanza dei nomi dei protagonisti - Giuseppe Pontiggia; ci si ritrova, parlando con Rocco, sempre più dentro un’attitudine, una vocazione, un mestiere - la scrittura - che allontana inevitabilmente dalle etichettature "di generazione". Ma dopotutto sono uno nato a metà del Novecento che sta parlando con uno nato nel Duemila, e anche se tutti e due amiamo Il lamento di Portnoy e Corto Maltese provo a liberarmi della istintiva complicità che mi suscita uno scrittore-scrittore, in mezzo all’orgia di sociologia che ci asfissia (da "collega" gli confido che Gli sdraiati venne accolto da una bordata di ciance sui "genitori sessantottini" che avrebbe ammazzato anche un bue, e non c’entrava nulla, con quel romanzo; non deve spaventarsi, dunque, quando verrà sottoposto a interrogatori multipli su "che cosa pensa della sua generazione". Lui non deve pensare, lui deve solamente scrivere. Siccome è gentile, nella dedica che mi fa sul suo libro mi ringrazia per "i consigli").
Comunque faccio il giornalista e gli dico che la politica, nel suo libro, non esiste, che non esiste la società, che esistono solo l’adrenalina, il testosterone, l’eros. Le sue pagine sono, da questo punto vista, molto meno acerbe di quello che ci si aspetterebbe da un diciottenne (si sentono Ammaniti, Roth, John Fante). Ma pur sempre rinchiuse dentro il "sé", un sé collettivo ma indifferente a ogni altro stimolo, o punto di riferimento...
«La politica è entrata nella nostra vita solo perché il 4 di marzo ci sono state le elezioni, e parecchi di noi avevano già diciotto anni. Ma non riesco a considerarla un grande argomento per un libro». Qui Rocco mi sembra avere quasi uno sguardo di scuse, avverte che c’è, stavolta sì, uno scarto quasi irrimediabile tra il signore sessantenne che gli sta davanti e lui, i suoi amici, i suoi libri. La politica non è tale, tra i diciottenni di Pavia, da meritare narrazione, e a pensarci meglio non è che le vada molto meglio altrove, alla politica. Non è che abbia molti mentori anche nelle fasce di età meno recenti, e teoricamente meno individualiste…
A rappresentare il fluire della vita anche al di fuori delle vicende individuali, il solo grande elemento collettivo nel romanzo di Rocco è il fiume: un fiume scritto bene, forse benissimo, il Ticino fatto d’acqua che scorre e di rive dove ci si incontra, ci si insegue e ci si batte, come nella "battaglia" finale, il capitolo che più di altri mi ha ricordato ragazzi vissuti moltissimo tempo prima, quelli della via Pâl. Là c’era l’epica (compresa la morte del giovane "soldato"), qui soprattutto l’eros, un eros molto disinibito, raccontato con confidente normalità e sovente con molto humour.
A proposito di humour, gli chiedo come sia possibile che nel suo libro sia citato Riccardo Cocciante. Mi risponde «non è colpa mia, me l’ha fatto ascoltare mio padre».

(Michele Serra, la Repubblica, 1 aprile 2018)


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