mercoledì 21 novembre 2018

Maupassant - I gioielli


Guy de Maupassant
I GIOIELLI

Il signor Lantin, dopo avere incontrato la giovane donna durante una serata in casa del suo vice capufficio, fu avvolto dall' amore come in una rete.
Era figlia d'un esattore di provincia, morto da parecchi anni. In seguito s'era stabilita a Parigi con sua madre, la quale frequentava alcune famiglie borghesi del suo quartiere con la speranza di trovar marito alla giovane. Erano povere e onorate, tranquille e amabili. La ragazza sembrava il modello perfetto della donna onesta a cui il giovane sensato sogna di affidare la sua vita. La sua bellezza modesta aveva il fascino d'un angelico pudore, e il lievissimo sorriso che non lasciava mai le sue labbra sembrava un riflesso del suo cuore.
Tutti ne cantavano le lodi; tutti coloro che la conoscevano ripetevano: «Beato chi se la piglierà. Non si può trovare di meglio».
Il signor Lantin, che allora era impiegato di prima categoria al ministero dell'Interno, con lo stipendio annuale di tremila e cinquecento franchi, la chiese in moglie e la sposò.
Con lei fu straordinariamente felice. Governò la casa con una economia tanto accorta che sembravano vivere nel lusso. Non esistevano premure, delicatezze, moine ch'ella non prodigasse a suo marito; e la seduzione della sua persona era tanto grande che lui, sei anni dopo il primo incontro, l’amava più dei primi giorni.
Le rimproverava soltanto due abitudini, quella del teatro e quella dei gioielli falsi.
Le sue amiche (conosceva alcune mogli di modesti funzionari) le procuravano continuamente dei palchi per le commedie di successo, perfino per le prime; e lei si tirava dietro il marito, volente o nolente, il quale dopo la giornata di lavoro si stancava terribilmente a quegli svaghi. La supplicò di andare agli spettacoli con qualche signora di conoscenza, che dopo la riaccompagnasse a casa. Lei resistette a lungo prima di cedere, parendole sconveniente. Alla fine si decise, per fargli piacere, ed egli le fu infinitamente grato.
Ben presto il gusto del teatro fece nascere in lei il bisogno di adornarsi. I suoi abiti rimasero semplicissimi, sempre di buon gusto ma modesti; e la sua grazia tranquilla, la sua grazia irresistibile, umile e sorridente, pareva prendere un sapore nuovo dalla semplicità dei vestiti; ma prese l’abitudine di appendersi alle orecchie due grosse pietre del Reno che parevano diamanti, e di portare collane di perle false, braccialetti di similoro, pettini ornati di varie conterie che imitavano le pietre di valore.
Il marito, un po' seccato per quell'amore dell'orpello, le ripeteva: «Mia cara, quando non si ha la possibilità di comprarsi i gioielli veri, ci si adorna della propria bellezza e della propria grazia, che sono sempre i gioielli più rari.
Lei sorrideva con dolcezza e rispondeva: «Che vuoi farci? Mi piace. E’ il mio vizio. Lo so che hai ragione, ma non mi posso mica riformare. Mi sarebbe piaciuto tanto avere dei gioielli!».
E si faceva scorrere tra le dita le collane di perle, faceva scintillare le faccette dei cristalli tagliati, dicendo: «Ma guarda, guarda com'è fatto bene. Sembra vero!».
Lui sorrideva dicendo: «Hai dei gusti da zingara».
Qualche volta la sera, quando stavano seduti tutti e due accanto al fuoco, lei portava sul tavolino dove prendevano il tè la scatola di marocchino in cui teneva chiuse le “cianfrusaglie”, secondo l'espressione del signor Lantin; e si metteva a contemplare i gioielli finti con un'attenzione appassionata, come se avesse goduto un piacere segreto e profondo; voleva mettere per forza una collana intorno al collo del marito, e poi rideva di cuore esclamando: «Quanto sei buffo!» e gli si gettava tra le braccia baciandolo con passione.
Una notte d'inverno rientrò dall'Opéra tutta piena di brividi. Il giorno seguente tossiva. Otto giorni dopo morì d'una infiammazione ai polmoni.
Per poco Lantin non la seguì nella tomba. La sua disperazione fu così tremenda che in un mese gli si imbiancarono i capelli. Piangeva dalla mattina alla sera con l'anima straziata da un dolore insopportabile, perseguitato dal ricordo, dal sorriso, dalla voce, da tutte le grazie della defunta.
Il tempo non placò il suo dolore. Spesso in ufficio, mentre i suoi colleghi facevano quattro chiacchiere sui fatti dei giorno, d'improvviso gli si vedevano gonfiarsi le gote, raggrinzirsi il naso, riempirsi di lacrime gli occhi; faceva una smorfia orrenda e cominciava a singhiozzare.
Aveva lasciato intatta la camera della sua compagna e vi si chiudeva tutti i giorni per pensare a lei; e tutti i mobili, perfino i vestiti, erano restati come si trovavano l’ultimo giorno.
Ma la vita cominciava a farsi dura per lui. Il suo stipendio, che in mano alla moglie bastava per tutti i bisogni della casa, ora era insufficiente per lui solo. Si chiedeva con stupore come lei fosse riuscita a destreggiarsi per fargli bere sempre vini squisiti e mangiare cibi delicati, che ora non riusciva più a procurarsi con i suoi modesti introiti.
Fece qualche debito e badò al soldo come tutta la gente ridotta a vivere di espedienti. Finalmente una mattina, trovandosi con le tasche vuote una settimana prima della fine del mese, pensò di vendere qualcosa; e subito gli venne in mente di sbarazzarsi delle “cianfrusaglie” di sua moglie, perché in fondo al cuore gli era rimasto una specie di rancore per quel falsume che prima lo irritava. Perfino vederli ogni giorno gli sciupava un po' il ricordo della sua diletta.
Cercò a lungo nel luccicante mucchietto che lei aveva lasciato, perché fino agli ultimi giorni di vita aveva seguitato ostinatamente a comprare, portando una cosa nuova quasi ogni sera; e si decise per la grande collana, che lei preferiva, pensando che potesse valere sette o otto franchi perché, per essere un falso, era un lavoro eseguito davvero con cura.
Se la mise in tasca e si diresse verso il ministero passando dai boulevards e cercando una gioielleria che gli ispirasse fiducia.
Ne trovò una ed entrò, un po' vergognoso di mettere in mostra la sua miseria, andando a vendere un oggetto si così scarso valore.
«Signore», disse al negoziante, «vorrei sapere quanto stimate questo oggetto.»
L’uomo lo prese, lo esaminò, lo rigirò, lo soppesò, prese una lente, chiamò il commesso, gli disse qualcosa sottovoce, rimise la collana sul banco e la guardò a distanza per meglio giudicare l'effetto.
Il signor Lantin, imbarazzato da tutte quelle cerimonie, aprì la bocca per dire: «Oh, so bene che non vale nulla … » quando il gioielliere disse:
«Questa collana, signore, vale da dodici a quindicimila franchi; ma non posso comprarla se non conosco la sua esatta provenienza.»
Il vedovo sgranò enormemente gli occhi e restò a bocca aperta, senza capire. Alla fine balbettò: «Ma davvero … siete sicuro?». L'altro interpretò male il suo stupore e disse con tono asciutto: «Potete andare da un altro per sentire se vi danno di più. Per me, vale al massimo quindicimila franchi. Tornate, se non trovate di meglio».
Il signor Lantin, completamente inebetito, si riprese la collana e se ne andò, obbedendo a un confuso bisogno di restar solo, e di pensare.
Ma appena fu in strada gli venne da ridere e si disse: «Che imbecille! oh, che imbecille! Meritava che l’avessi preso in parola! Un gioielliere che non è neanche capace di distinguere la roba vera da quella falsa».
Entrò in un'altra bottega, al principio di rue de la Paix. Appena ebbe visto il monile, il gioielliere esclamò:
«Perbacco, la conosco bene questa collana: viene di qui.»


Il signor Lantin, molto agitato, chiese:
«Quanto vale?»
«Io l'ho venduta per venticinquemila franchi, signore. Sono disposto a riprenderla per diciottomila se, in obbedienza alle norme vigenti, mi direte in quale modo ne siete venuto in possesso.» Questa volta il signor Lantin dovette sedersi, annientato dallo stupore. «Ma guardatela bene», disse. «Fino a oggi io ho creduto che fosse … falsa.»
Il gioielliere disse: «Volete dirmi come vi chiamate, signore?».
«Certo. Mi chiamo Lantin, sono impiegato al ministero dell'Interno, e abito in rue des Martyres, numero sedici.»
Il negoziante aprì il registro, cercò e disse: «Infatti questa collana è stata mandata all'indirizzo della signora Lantin, rue des Martyres sedici, il 20 luglio 1876».
I due uomini si guardarono negli occhi, I'impiegato sconvolto dalla sorpresa, l’orefice fiutando un ladro.
Quest'ultimo aggiunse: «Potete lasciarmi questo oggetto soltanto per ventiquattr'ore? Vi faccio una ricevuta».
Il signor Lantin balbettò: «Sì, sì... certo». E uscì piegando il foglietto e infilandoselo in tasca.
Poi attraversò la strada, la risalì, si accorse di avere sbagliato, scese alle Tuileries, passò la Senna, si accorse di aver nuovamente sbagliato, tornò agli Champs-Élysées senza avere in testa un'idea chiara. Cercava di ragionare, di capire. Sua moglie non aveva potuto comprare un oggetto di tanto valore. Certo no. E allora era un regalo! Un regalo? Un regalo di chi? Perché?
S’era fermato, immobile in mezzo al viale. L'orrendo dubbio lo sfiorò. Lei? Allora anche tutti gli altri gioielli erano dei regali! Gli parve che la terra ondeggiasse; che un albero davanti a lui crollasse; stese le braccia e cadde, privo di sensi.
Riprese conoscenza in una farmacia, dove l’avevano portato alcuni passanti. Si fece condurre a casa e vi si rinchiuse.
Pianse disperatamente fino a notte, mordendo il fazzoletto per non urlare. Poi si coricò, affranto dalla fatica e dal dolore, e dormì d'un sonno pesante.
Lo svegliò un raggio di sole, e con lentezza si alzò per andare al ministero. Dopo un simile colpo era difficile rimettersi a lavorare. Pensò che avrebbe potuto scusarsi col capufficio, e gli scrisse. Poi gli venne in mente che doveva tornare dal gioielliere; e arrossì dalla vergogna. Restò lungamente a riflettere. Comunque, non poteva lasciare la collana a quell'uomo. Si vestì e uscì.
Era una bella giornata, il cielo azzurro si stendeva sulla città che pareva sorridere. Alcuni passanti davanti a lui andavano a zonzo, con le mani in tasca.
Guardandola, Lantin pensò: “Com'è felice chi ha soldi! Col denaro ci si può liberare anche dei dispiaceri, si va dove si vuole, si viaggia, ci si distrae. Oh! se fossi ricco!".
Si accorse di aver fame, perché era digiuno dalla sera prima. Ma aveva le tasche vuote, e si ricordò della collana. Diciottomila franchi! diciottomila franchi! Che somma!
Arrivò in rue de la Paix e cominciò a passeggiare su e giù per il marciapiede, davanti alla bottega. Diciottomila franchi! Per venti volte fu sul punto d'entrare, trattenuto sempre dalla vergogna.
Però aveva fame, e tanta, e neanche un centesimo in tasca. Si decise all'improvviso, attraversò di corsa la strada per non darsi tempo di riflettere e si precipitò nella gioielleria.
Appena l'ebbe visto, il negoziante accorse sollecito, gli offrì una sedia con sorridente cortesia. Vennero anche i commessi, e guardavano in tralice Lanvin, con bagliori d'allegria sulle labbra e negli occhi.
Il gioielliere disse: «Mi sono informato, signore; e, se siete sempre della stessa idea, sono pronto a pagarvi la somma che vi ho proposto».
«Certo», balbettò l'impiegato.
L'orefice tirò fuori da un cassetto diciotto grandi biglietti, li contò, li porse a Lantin, il quale firmò una ricevuta e con mano fremente si mise il denaro in tasca.
Sul punto di uscire si voltò verso il negoziante che seguitava a sorridere e disse, chinando lo sguardo: «Avrei … avrei degli altri gioielli ... che mi vengono dalla stessa eredità. Sareste disposto a prenderli?».
Il negoziante s'inchinò: «Certo, signore». Uno dei commessi uscì, per ridere con comodo; un altro si soffiava fragorosamente il naso.
Lantin, impassibile, rosso e serio, disse: «Ora ve li porto».
E chiamò una carrozza per andare a prendere i gioielli.
Quando, un'ora dopo, tornò nel negozio, non aveva ancora mangiato. Cominciarono a esaminare i gioielli uno per uno, stimandoli. Provenivano quasi tutti da quella gioielleria.
Ora Lantin discuteva le valutazioni, s'incolleriva, pretendeva di vedere i registri di vendita e, via via che la somma aumentava, parlava con voce sempre più alta.
I grandi orecchini valevano ventimila franchi, i braccialetti trentacinquemila, gli spilli, gli anelli e i medaglioni sedicimila, un finimento di smeraldi e zaffiri quattordicimila, un solitario che, sospeso a una catena d’oro, formava una collana, quarantamila. In tutto si arrivava a centoventiseimila franchi.
Il negoziante disse, con beffarda bonarietà: «Ecco una persona che spendeva in gioielli tutti i suoi risparmi».
Lantin disse con gravità: «E’ un modo come un altro d’investire il denaro». E se ne andò, dopo avere concordato con l'acquirente una controperizia per il giorno seguente.
Appena fu in strada guardò la colonna Vendôme con la voglia di arrampicarcisi, come se fosse stato l'albero della cuccagna. E si sentiva così leggero che avrebbe saltato a piè pari la statua dell'imperatore arrampicata lassù nel cielo.
Andò a mangiare da Voisin e bevve vino da venti franchi la bottiglia.
Poi prese una carrozza e fece un giro nel Bois de Boulogne. Guardava le altre carrozze con un certo disprezzo, bramoso di gridare a quelli che passavano: «Sono ricco anch'io. Ho duecentomila franchi!».
Gli venne in mente il ministero. Vi si fece condurre, entrò decisamente dal suo capufficio e annunciò: «Signore, vengo a dimettermi. Ho ereditato trecentomila franchi». Andò a salutare gli ex colleghi, facendoli partecipi dei suoi progetti di vita nuova; poi andò a mangiare al café Anglais.
Trovandosi accanto un signore che gli parve raffinato non poté trattenersi dal confidargli, con una certa qual civetteria, di avere appena ereditato quattrocentomila franchi.
Per la prima volta in vita sua non si annoiò al teatro, e passò la notte con alcune ragazze allegre .
Si risposò dopo sei mesi. La sua seconda moglie era onestissima, ma di carattere difficile. Lo fece soffrire molto.

Nessun commento:

Posta un commento