lunedì 23 novembre 2015

Radamisto, il bersagliere di 71 anni


Dai campi di Custoza alle trincee del Carso

Radamisto, il bersagliere di 71 anni

Sembra un nome del periodo faraonico ed è d’un nato a Piacenza il 14 febbraio 1846 da una lunga prosapia di piccoli proprietari piacentini. A 18 anni, nel 1864, corre ad arruolarsi a Torino nei bersaglieri e due anni dopo alla battaglia di Custoza ha il braccio destro perforato da una fucilata e la medaglia al valore. Partecipa poi in Sicilia alla campagna contro il brigantaggio finché, congedato nel ’72, gli vien conferito un impiego; ma poi lascia l’impiego… e via in America in quell’Argentina che pareva in quei tempi l’Eldorado. Comincia da facchino; ma finisce col trovare un buon impiego ed accumula un invidiabile capitaletto. Nel ’90 scoppia la guerra civile laggiù; egli non vuole stare coi “civici” né coi “governativi” e si iscrive volontario alla Croce Rossa; per quattro interi giorni soccorre feriti, raccoglie cadaveri (narra che li si legava a fasci buttandoli sui carri e sui tram), e bada a mettere sopra tutto in salvo i connazionali. Il ministro d’Italia lo segnala al ministro Nicotera per una ricompensa e gli vien conferita la medaglia di bronzo al valor civile, mentre il Governo argentino gli rilascia un certificato di benemerenza. Ma la bimba gli muore, la moglie impazzisce e nel 1903 torna in Italia, poi va a Parigi ove il suo spirito bizzarro lo porta a trovarsi al verde e malato con oltre sessant’anni sulle spalle. Fa istanza da Parigi per essere ammesso nella Casa di ricovero pei veterani in Turate. A mezzo dell’ambasciata gli viene risposto non avere egli ancora i limiti di età; ma scrive tale un’epistola pro domo sua che l’ambasciatore Tittoni stesso lo raccomanda al Governo e ottiene che uno dei posti governativi del ricovero venga a lui deferito. Ma non è decorso un anno che scoppia la guerra libica ed egli vuol arruolarsi.  Non lo accolgono. Lascia Turate e corre a Napoli, compra una carabina, si presenta in caserma; ma è respinto.

Scoppia nel ‘915 la nostra guerra e a Milano va dall’aiutante di campo del Conte di Torino per essere arruolato. Lo si consiglia di sottoporsi alla visita militare; ma alla caserma di San Celso gli si constata una vecchia ernia. Non lo accettano. Vuol farsi operare ma al padiglione Ponti esitano data la sua età. Fa appoggiare la propria richiesta da un alto ufficiale ed è accolto. Il 14 giugno entra all’ospedale, il 27 ne esce guarito, il 1° luglio si arruola nei bersaglieri come semplice soldato, malgrado fosse uscito dall’esercito col grado di sergente. L’esempio del senatore Pullè, arruolatosi prima di lui come soldato, lo induce alla baldanzosa rinuncia.

Iscritto nel famoso 12° -fisso ormai a carattere d’oro nella storia militare italiana- combatte nella conca di Plezzo, combatte al Piccolo Javorcek, combatte al tragico Mrzli, ove il colonnello Negrotto cadde, il colonnello De Rossi rimase inguaribilmente ferito. Lui niente; ne esce incolume.

*

Da soldato promosso a caporale, eccolo successivamente conquistarsi per merito di guerra i galloni di sergente e sergente maggiore; eccolo ancora, a quasi 71 anni, ottenere il distintivo di “ardito” per ripetute prove d’audacia. I suoi galloni hanno perciò l’ornamento della corona d’oro e porta al braccio la sigla reale. Quando la missione inglese si recò alla nostra fronte Giulia, fra le medaglie distribuite in nome di Re Giorgio ai più valorosi, una d’argento ne diede a Radamisto, il quale ha ora il petto fregiato di sei nastrini di vario colore.

Nel settembre, quando la I brigata bersaglieri venne passata in rivista al Ponte di Versa, questo vecchio svelto loquace, dall’occhio vivo e dal sorriso burlesco, attrasse l’attenzione del Duca d’Aosta, e quattro giorni Antonio Radamisto si vide consegnare solennemente dal proprio colonnello avanti a tutto il reggimento un magnifico orologio d’oro con catena d’oro fattogli regalare dal Duca pel tramite del Comando della brigata bersaglieri. L’orologio porta incisa la dedica: «Al bersagliere di Custoza e d’oggi, sergente maggiore Radamisto» colla firma in facsimile «E. F. di Savoia». L’ordine del giorno che accompagnò la consegna riproduce la lettera del Duca al generale: «Niuna cosa poteva colpirmi maggiornente nella visita alla sua magnifica brigata che quella di vedere tra le file dei suoi baldi e stupendi bersaglieri d’oggi, un bersagliere di altri tempi, il sergente maggiore S. A. Radamisto, quale esempio vivente della gloriosa tradizione e del valore del corpo. L’orologio che le mando per lui non è soltanto il dono per il valoroso veterano, ma anche, caro Generale, un segno della mia ammirazione e della mia fiducia per i suoi splendidi reggimenti, ai quali invio gli auguri più fervidi che possano partire dal mio cuore di italiano, di soldato, di Savoia. «In alto i cuori» e «Più avanti» e «Più alto» sempre.»

Nei gloriosi giorni dell’1, 2 e 3 novembre testè decorsi, il Radamisto partecipò alla presa del Pecinka e del Veliki Hirbak; ora è proposto a maresciallo per merito di guerra.

(Domenica del Corriere, 1916)

 

La degenerazione degli Absburgo


La degenerazione degli Absburgo

Da molto tempo gli scienziati si occupano della ereditarietà delle stigmate di degenerazione tanto negli animali che negli uomini, riuscendo ad affermare la trasmissione ereditaria dei caratteri teratologici, con documenti di prova sicura. In queste indagini, gli elementi umani preferiti sono i membri delle case illustri, specie regnanti, data la possibilità di ottenere una precisa e remota documentazione, per mezzo dei ritratti di famiglia, medaglioni, archivi, ecc. Interessante per noi particolarmente sono gli studi del dottor Galippe, membro dell’Accademia di Medicina francese, e del dottor A. Cartaz, risalenti a qualche anno prima della guerra attuale, in quanto che essi riflettono in modo speciale la degenerazione nella famiglia imperiale degli Absburgo, i nostri nemici ereditari.

Dice il dottor Cartaz: «La degenerazione rivela la sua personalità per mezzo di stigmate caratteristiche, fisiologiche e psicologiche; esse sono multiple, la qual cosa fa che un degenerato non rassomigli a un altro. Accanto all’idiota, si trova il debole di spirito, il debile, il retrogrado; vicino ai tipi di deformazioni più pronunciate, spesso una semplice alterazione di una parte della faccia… Galippe ha scelto una delle famiglie dove la trasmissione di questa tara ereditaria, il prognatismo inferiore, è rivelata nella sua manifestazione massima: quella degli Absburgo, i sovrani d’Austria».

Che cosa sia il prognatismo è noto generalmente. Esso è una speciale disposizione della faccia, per cui la linea del profilo, partendo dalla fronte fino alla parte più prominente dei mascellari, appare obliqua in rapporto al piano orizzontale del cranio. Ciò costituisce, in antropologia, la prominenza della mascella. Il doppio prognatismo mascellare, cioè la proiezione in avanti delle due mascelle, è uno dei tratti che distinguono i negri dell’Africa.

Quale influenza possa avere questa deformazione fisica sulla psiche individuale e sui caratteri morali di tutta una stirpe, è difficile accertare.

Esaminando la storia degli Absburgo si è tratti a credere che essa sia profonda e senza dubbio funesta. Per quanto lontano si risalga, al 13° secolo, si nota che i ritratti di Rodolfo I, cespite della casa austriaca, e di suo figlio Alberto il Vittorioso, mostrano la mascella inferiore avanzata. Due secoli dopo, nel XV, questa deformazione caratteristica si trova ancora in Massimiliano d’Austria e si ripete, più o meno accentuata, in tutti i suoi discendenti. Quattro secoli dopo, la stigmate degenerativa ricompare nel figlio di Napoleone I, il duca di Reichstadt, che la eredita dalla austriaca madre sua. Così attraverso i maritaggi, le caratteristiche teratologiche degli Absburgo, fisiche e psichiche, si sono riprodotte in altri rami regnanti. Luigi XVI e Maria Antonietta avevano entrambi il marchio degli Absburgo.

I due scienziati che hanno preso in esame questo fenomeno degenerativo non accennano a Francesco Giuseppe. Disserta invece sui caratteri di degenerazione somatica nel vecchio imperatore il dottor Neipp, notando come alcuni di essi siano appunto ereditari, e mettendo in rilievo sopra tutto la mediocrità intellettuale e l’insensibilità morale.

Senza dare troppo peso alla supposta follia di Francesco Giuseppe che potrebbe essere solo un fenomeno recente e acquisito di decadenza mentale certo non inverosimile in un uomo così gravato d’anni, si deve riconoscere che i caratteri psichici costituzionali del vecchio sovrano, come nota anche E. Lugaro, nel suo acuto studio «Pazzia d’Imperatore o aberrazione nazionale?» sono ben definiti nella loro anormalità da fatti che nemmeno i cortigiani più zelanti osarono contrastare.

In 67 anni di regno non si conta dell’Imperatore d’Austria un solo atto generoso, una sola frase felice, un solo pensiero chiaroveggente. E’ per contro ben diffusa e, sembra, giustificata, l’accusa di odi familiari implacabilmente nutriti fino al fratricidio, dacché la fucilazione di Massimiliano imperatore del Messico fu da lui voluta o, per lo meno, non impedita, mentre sanno i popoli che gli sono o gli furono soggetti la spietata crudeltà del suo governo.

In linea di massima la politica dell’attuale guerra è attribuita generalmente all’influenza perversa di Guglielmo II e di Francesco Giuseppe, nei quali alcuni alienisti trovano addirittura gli elementi profondi della follia. Il Lugaro, pur ammettendo che le tesi cliniche contengano un nucleo di verità, nega all’attuale crisi un’origine psicopatologica e personale nella infermità dei due sovrani.

Comunque sia, è evidente che l’Imperatore d’Austria guidò impassibile la lunga carriera della sua esistenza, in mezzo ai lutti e alle rovine, senza un’espressione di rimpianto.

La storia del martirologio italiano narra in pagine d’ira e di vendetta la fredda volontà di male del suo spirito inesorabile. Oggi ancora, mentre la sua vita si spegne per legge di natura, sopravvive in lui, con aspetti di furore impotente, la scomposta voglia di dominio, di ferocia e di rivincita. L’ereditarietà della deformazione atavica ha lasciato nel suo corpo in disfacimento l’anima senza rimorso.

A. M. Gianella

(Domenica del Corriere, 1916)

mercoledì 21 ottobre 2015

Libri e felicità (Annachiara Sacchi)

L’indagine voluta dal gruppo Gems e condotta dal centro Cesmer (Università di Roma Tre)

Anche la scienza conferma
Chi legge libri è più felice

Francesco Petrarca, nel XIV secolo, lo sperimentava su se stesso ogni giorno. Parlando dei libri diceva: «Per me cantano e parlano; e chi mi svela i segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte. E v’è chi con festose parole allontana da me la tristezza». Non è stato il solo -e nemmeno il primo- a cantare i poteri terapeutici della lettura. Hanno usato espressioni simili Cicerone, Kafka, Salinger, Virginia Woolf («Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine»). Ma questa volta il tema è scientifico e un’indagine lo dimostra con numeri, dati e tabelle: leggere rende felici. E aiuta ad affrontare meglio la vita.

Più ottimisti di chi non legge. Meno aggressivi, più predisposti alla positività. Ecco i lettori secondo la ricerca La felicità di leggere voluta da Gems (gruppo editoriale Mauri Spagnol) in occasione del suo decimo compleanno e affidata a Cesmer, Centro di studi su mercati e relazioni industriali dell’Università di Roma Tre. Obiettivo del committente: capire come e quanto i libri, cartacei o digitali, incidano sul benessere generale dell’individuo. Il metodo usato: interviste su un campione di 1.100 persone (tra il 12 maggio e il 14 giugno scorsi) suddivise in lettori e non lettori (da ricordare il dato Istat 2014: il 58,6% degli italiani non ha letto un solo libro nei precedenti 12 mesi). La novità: non era mai stato affrontato prima il valore della lettura in ambito emotivo e cognitivo.

Ecco allora i risultati. Il più evidente: i lettori italiani sono complessivamente più felici dei non lettori. Lo dice un numero, l’indice di felicità complessiva (misurato con la scala Veenhoven, da 1 a 10): chi legge arriva a quota 7,44, chi non legge scende a 7,21, «una differenza statisticamente molto significativa», spiegano gli studiosi che hanno realizzato la ricerca (la media italiana è di 7,30). Altro elemento, altri sistemi di misurazione: secondo la scala di Diener e Biswas-Diener che misura la frequenza (da 6 a 30) di sei emozioni positive, i lettori hanno un indice superiore ai non lettori: rispettivamente 21,69 contro 20,93. Risultato: chi ama saggi e romanzi sperimenta emozioni positive più spesso di chi non si dedica ai libri. Allo stesso modo, e secondo la stessa scala, i lettori provano emozioni negative con minore frequenza rispetto a chi non legge: 16,84 contro 17,47. E qui, a confortare i numeri, Montesquieu potrebbe aggiungere la sua: «Mai avuto un dolore che un’ora di lettura non abbia dissipato». In particolare, i lettori si sentono arrabbiati meno frequentemente rispetto ai non lettori. Spiegazione: «La lettura offre preziosi strumenti cognitivi per affrontare le difficoltà».

Il dato generale è confermato, leggere fa stare meglio. Ma la ricerca evidenzia altri aspetti. E soprattutto, fa notare Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato di Gems, «fa emergere un profilo del lettore lontano dagli stereotipi». Non curvo sui testi, solitario, asociale, ma attento a godere ogni momento della giornata, soprattutto quando non è al lavoro. E infatti il lettore è più soddisfatto di come trascorre il tempo libero (7,59) rispetto ai suoi «opposti» (7,35); ritiene che leggere sia l’attività più importante quando non ha da fare (al secondo posto la musica, al terzo l’informazione attraverso giornali o siti); ma soprattutto considera che il maggior «generatore di felicità» — sempre durante il tempo libero — sia l’esercizio fisico (7,80), seguito dall’ascolto della musica (7,74), da mostre e concerti (7,52) e, solo al quarto posto, dalla lettura (7,24).

Mauri sorride: «Come si deduce dai numeri, chi legge impiega in modo più ricco e articolato i suoi momenti di libertà dal lavoro, è curioso, sa assaporare e scegliere le attività che gli danno gioia. Inoltre leggere amplifica le emozioni positive, consente di affrontare gli eventi negativi senza perdersi. Fa bene sul serio». Missione compiuta: «La ricerca — continua Mauri — ha risposto alle nostre domande: l’impegno e la passione che mettiamo nel nostro lavoro di editori si riflettono sulla vita dei lettori».

L’identikit è tracciato, ora si scende nei dettagli: la maggior parte degli amanti dei libri legge dal lunedì al venerdì dalle 19 all’una di notte. Oppure durante il finesettimana, anche nel primo pomeriggio. Curiosità: su cento lettori, 69,63 non leggono sui mezzi pubblici o privati, meglio il letto, l’autobus non aiuta. Aiutano invece la famiglia e la scuola: il 68,7% del campione sottolinea l’importanza dei genitori e degli insegnanti nell’incoraggiamento alla lettura. Per diventare «lettori felici» bisogna cominciare da piccoli.
Annachiara Sacchi (Corriere della Sera, 21 ottobre 2015)



L'età dell'insicurezza (Giangiacomo Schiavi)

Vaprio D’Adda, quella ferita sempre aperta nel Nord profondo

Prima di improbabili paragoni con il Far West mettiamoci nei panni di un cittadino che sorprende i ladri in casa. «Se avessi avuto il revolver nel cassetto chissà come finiva», confidò il giudice D’Ambrosio dopo il furto nell’abitazione.

Francesco Sicignano il revolver ce l’aveva a portata di mano ed è finita come è finita. Si può morire per quattro soldi e qualche oggetto d’oro, a Vaprio d’Adda come in qualsiasi comune del profondo Nord, quando la paura dei ladri e delle bande che svaligiano ville e appartamenti crea psicosi a lungo sottovalutate.

Ma chi spara non è un eroe: niente autorizza la giustizia fai da te. Se questo avviene è perché c’è un deficit di fiducia, una percezione di insicurezza che sindaci e cittadini del Nord lamentano da anni, un allarme confermato dall’inchiesta di Aldo Cazzullo sul Corriere: quando lo Stato lascia sguarnite certe zone o limita i controlli, non ci si può sorprendere se la gente si difende.

Chi ha subito un furto in casa sa che la violazione del domicilio è una ferita sempre aperta, una spoliazione di beni e di intimità: ci si difende con le inferriate, gli allarmi, le telecamere e le porte blindate, ma c’è sempre un elemento irrazionale che scatta quando ci si trova davanti a un ladro e si teme per l’incolumità propria e dei familiari. È successo in passato a Castenedolo, nel Bresciano: un ladro è stato ucciso dal proprietario della casa che stava per svaligiare. Reazione di sopravvivenza o eccesso di legittima difesa? Omicidio volontario, lo rubricò il giudice che rilasciò subito l’indagato. Identica è l’accusa per il pensionato che ha sparato e ucciso il giovane rumeno sorpreso nella sua abitazione a Vaprio d’Adda.


A suo sostegno sono arrivate le prime fiaccolate, persino l’esaltazione dell’autodifesa con la pistola: in assenza delle risposte, di una riflessione sullo stato delle forze dell’ordine nei territori e nelle zone lasciate alle scorrerie delle bande di ladri e malavitosi, la politica prende le sue scorciatoie propagandistiche. Resta il fatto che la gente ha paura, che i controlli sono scarsi, che non sempre quelli che vengono sorpresi in flagranza di reato stanno in galera. E poi qualcuno spara.

Giangiacomo Schiavi (Corriere della Sera, 21 ottobre 2015)

sabato 17 ottobre 2015

Gli italiani e i migranti (Aldo Cazzullo)


Gli italiani e i migranti

Ma la paura non è una colpa

La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata, come fa la Lega. Ma non va neppure negata e rimossa, come fa la sinistra e anche una parte del mondo cattolico. La paura si vince rimuovendone le cause.

Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutto non ne vedono la fine. L’impressione è che il governo e gli enti locali stentino a organizzare sia l’accoglienza, sia i rimpatri; e soprattutto non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologica senza cui l’integrazione resta utopia. Il tentativo di coinvolgere l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le guerre civili nel Nordafrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizzare l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedono ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendoli ai trafficanti di uomini, e di selezionare all’origine i «migranti economici», distinguendo le figure professionali di cui l’Italia ha bisogno dalla massa che andrebbe fermata o rimandata indietro.

I migranti non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il tessuto industriale e sociale, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia.

Le reazioni emotive di fronte a migranti che non si sono ancora neppure visti, come nel paese rosso di Badia Prataglia sull’Appennino toscano, e gli scontri tra i parroci che li accolgono e i sindaci che li respingono, come a Bondeno, in riva al Po, non sono conseguenze del razzismo, ma dell’insicurezza. Che cresce proprio perché nella discussione pubblica non viene considerata, bensì liquidata con un’alzata di spalle o uno sguardo di commiserazione.

Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierata dell’immigrazione, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici; tanto i figli vanno alla scuola internazionale, e i nonni nella clinica privata. L’immigrazione può rivelarsi un sollievo per il sistema produttivo, ma comporta un prezzo, tutto a carico delle classi popolari, chiamate a combattere ogni giorno una guerra tra poveri per il posto all’asilo, il letto in ospedale, la lista d’attesa al pronto soccorso, e pure la casa e il lavoro.

Certo, alle società esangui e anziane d’Europa servono le energie formidabili che salgono dalle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo. Ma non è forse cinica la logica di rimpiazzare con i nuovi venuti i bambini che gli italiani non fanno più, anziché sostenere la maternità o almeno mettere in condizione le donne di scegliere liberamente? Anche sull’apporto dei migranti all’economia è nata una retorica, ridimensionata sul Financial Times da Martin Wolf, editorialista britannico orgogliosamente figlio di profughi: per coprire i buchi del welfare e della previdenza l’Europa dovrebbe accogliere in pochi anni decine di milioni di stranieri. Che non sbarcano nelle vaste praterie deserte d’America, ma in Paesi - come il nostro - montuosi e densamente antropizzati, cioè popolati da secoli non solo dall’uomo e dalle sue opere ma da memorie e culture, retti su equilibri precari da ricostruire ogni volta. Così diventano simboli anche l’altalena contesa nel giardino di Padova chiuso tra il campo profughi e l’asilo, o la rivolta di Gorizia in difesa del parco che custodisce i segni drammatici della sua storia, trasformato in bivacco.

C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Volontari laici e cattolici fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministrazione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerire il peso che grava sulle nostre frontiere, organizzando il viaggio dei profughi e il respingimento dei clandestini; e far funzionare la macchina dell’integrazione, legando i diritti ai doveri, che comprendono la conoscenza e il rispetto dei nostri valori, a cominciare dall’uguaglianza tra uomo e donna. Forse don Abbondio aveva torto: il coraggio uno se lo può dare. A patto di rispettare la paura ed eliminarne le ragioni.

Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 14 ottobre 2015)

 

domenica 4 ottobre 2015

Materiali per la riscrittura (2AG ottobre 2015)


Riscrivi le seguenti frasi

 

 

(Correggi la punteggiatura, l’ortografia e il lessico e riscrivi la frase modificando le parti sottolineate –ma non solo!- nella forma e nelle scelte lessicali, dividendo le frasi troppo lunghe e cercando di renderle chiare e scorrevoli)

 

Analisi di tre ritratti di Manzoni

 

I capelli leggermente spettinati e la camicia aperta, secondo me rappresentano la giovane età dello scrittore, in cui non ci si cura troppo della formalità.

(punteggiatura; uso del relativo)

 

 

Manzoni sembra chiedersi cosa ne sarà di lui.

(pleonasmo)

 

L’espressione del suo viso è serena, rilassata.

(connettivo)

 

 

Un altro ritratto può essere quello di Giuseppe Molteni.

(lessico)

 

 

La bocca è ancora socchiusa, ma a differenza la fronte è corrugata.

(lessico)

 

 

Questo si può capire perché lo scrittore è raffigurato come un uomo di mezza età.

(lessico)

 

 

In questo ritratto, Manzoni, a differenza dei precedenti, è raffigurato seduto. Questo per rendere l’idea di un anziano che finito il lavoro si riposa.

(sintassi; punteggiatura, lessico)

 

 

Il suo abbigliamento è piuttosto ribelle.

(lessico)

 

 

Gli abiti sono gli stessi ma sono indossati con maggiore eleganza.

(punteggiatura)

 

 

Indossa una camicia bianca e sopra una giacca nera.

(punteggiatura o lessico)

 

 

Manzoni sembra pensoso come se stesse meditando sulla sua vita, sull’esistenza.

(punteggiatura e semplificazione)

 

 

Il ritratto è lo specchio dell’anima ed è per questo che andrò ad analizzare ritratti di Manzoni che lo rappresentano in diverse sezioni della sua esistenza con l’obiettivo di far emergere le differenze che ha subito durante l’arco della sua vita.

(punteggiatura, lessico, struttura della frase, semplificazione)

 

 

Penso che questi dipinti esprimano al meglio le emozioni e le varie fasi della vita e nonostante sappia poco di questo autore mi dà l’idea di una persona creativa, intelligente, nostalgica.

(lessico, punteggiatura, struttura della frase)

 

 

Anche lo sfondo cambia, infatti il paesaggio è più elaborato e grande.

(punteggiatura; lessico)

 

 

I vestiti disordinati mi fanno pensare alla tenera età e all’ingenuità/innocenza.

(lessico; struttura della frase; uso della barra)

 

 

 

mercoledì 1 aprile 2015

Compiti per la classe 1AG

Versioni di Greco (nel volume "Verso Itaca")

n. 32 pag. 62; n. 45 pag. 84; n. 46 pag. 85


Italiano

Dopo Pasqua rivedremo insieme "Un anno sull'altipiano" di E. Lussu; in preparazione mi dovete inviare la frase (indicando da quale capitolo l'avete tratta) che vi ha colpito di più del libro e perché.

A presto

mercoledì 18 febbraio 2015

Materiali per la riscrittura (1AG - 10 febbraio 2015)

Riscrivi le seguenti frasi


(Correggi la punteggiatura, l’ortografia e il lessico e riscrivi la frase modificando le parti sottolineate –ma non solo!- nella forma e nelle scelte lessicali, dividendo le frasi troppo lunghe e cercando di renderle chiare e scorrevoli)

Commento alla lettera di Alice sul bullismo

Questi eventi mi scuotono molto e per fortuna io non sono mai stata vittima di bullismo e nemmeno ho assistito ad episodi di questo tipo.
(lessico, connettivi, punteggiatura)


Concordo con Alice quando dice che le vittime del bullismo non devono tenersi tutto dentro, devono parlarne con altre persone.
(connettivi, lessico)


Sono sicura che lei supererà tutto e le ragazze deboli, sono quelle che l’hanno sfidata.
(punteggiatura, connettivi)


Alice è stata coraggiosa e ha raccontato la sua storia; molti altri ragazzi vengono presi di mira e alcuni arrivano anche a uccidersi.
(punteggiatura, connettivi)


Un consiglio, soprattutto di un genitore va sempre colto.
(punteggiatura)


I bulli sono sempre individui apparentemente forti ma in realtà fragili che hanno diversi problemi con sé stessi.
(punteggiatura, connettivi, accento)


Questa lettera scritta da una ragazzina della mia età, mi ha molto colpita.
(punteggiatura)


Alice ha avuto il coraggio di denunciare a tutti, che il bullismo esiste.
(punteggiatura)


Alice però, sembra essersi rialzata con più forza di prima.
(punteggiatura)


Io sono d’accordo con lei, il bullismo va denunciato, non bisogna arrendersi.
(punteggiatura)


Gli avevo detto più volte di dirlo ai suoi genitori.
(lessico)


La stessa Alice pensa che la causa dell’aggressione sia scatenata dall’invidia.
(lessico, tempo)


Non lo trovo giusto morire perché qualcuno ti rivolge offese pesanti.
(pleonasmo)


Ho letto questo articolo in modo molto interessato.
(lessico)


Concludo dunque riconfermando la mia stima per Alice.
(migliora la forma della conclusione)


Bisogna affrontare il problema, perché facendo finta di niente i problemi non si risolvono.
(ordine delle parole, lessico)


Alice penso che sia una ragazza energica.
(ordine)


Leggendo la lettera di Alice ho appreso l’importanza di farsi avanti.
(lessico)


Alice afferma che il possibile motivo dell’aggressione fosse l’invidia verso di lei, che era stata scelta per un progetto e le sedicenni, anche se maggiori d’età di Alice, invece no.
(semplifica e chiarisici)


Il bullismo è un fenomeno deplorevole purtroppo molto diffuso negli ambienti adolescenziali.
(ordine delle parole)


Nella lettera Alice ritiene di aver subito delle aggressioni.
(lessico)




mercoledì 28 gennaio 2015

Materiali per la riscrittura (2AG - 8 gennaio 2015)


Riscrivi le seguenti frasi

 

 

(Correggi la punteggiatura, l’ortografia e il lessico e riscrivi la frase modificando le parti sottolineate –ma non solo!- nella forma e nelle scelte lessicali, dividendo le frasi troppo lunghe e cercando di renderle chiare e scorrevoli)

 

Traccia

 

Sono esclusi, isolati perché nessuno li vuole. Forse è per il loro carattere, delle volte è per l’aspetto fisico oppure per il loro modo di vestire. Ma comunque sono cose che uno anche volendo, non riuscirà a cambiare.

(punteggiatura, lessico)

 

 

In poche parole, quello che sto cercando di dire, è che alla solitudine c’è sempre una soluzione basta mettere forza di volontà e cercare di essere positivi; l’unica solitudine che è difficile da eliminare è la solitudine per scelta.

(punteggiatura)

 

 

La solitudine peggiore è quando ci si chiude in se stessi, niente telefonini, niente social, solo la fastidiosa sensazione di non essere mai nel posto giusto.

(punteggiatura)

 

 

Penso al passato, a tutti i miei errori, a quelli che rimpiango, ci rido su; però le lacrime scendono da sole.

(punteggiatura, connettivo)

 

 

Questo periodo lo passano la maggior parte degli adolescenti.

(concordanza)

 

 

Questo tipo di errori sono difficili da risolvere.

(concordanza)

 

 

Nonostante questo noi siamo felici; per noi è bello anche essere soli se lo si è in compagnia.

(connettivo)

 

 

In questo modo internet non ti fa capire quanto sei solo nella realtà; ti da la possibilità di non esserlo più per qualche ora.

(ortografia, legame tra le due frasi)

 

 

Mi sentivo sola, perché sapevo che quando tornavo a casa ero sola.

(tempi e struttura)

 

 

 

I social network ci fanno rimanere in casa anziché uscire a divertirsi.

(pronome)

 

 

Gli errori fatali sono quelli di cui non possiamo liberarci delle conseguenze.

(pronome)

 

 

Queste persone si creano un blog, lo riempiono di cose depressive e aspettano che qualcuno gli venga a dire che li capiscono.

(lessico, uso del pronome)

 

 

Certo non è il massimo, ma non posso dire di essere contro questa cosa perché lo faccio anche io.

(registro, lessico)

 

 

Io stesso, pur affascinandomi di fronte alle opere d’arte e/o di intrattenimento, riconosco che molte altre attività sono più divertenti.

(lessico)

 

 

In quel luogo c’erano persone sole e tristi e, per quanto la cosa sia egoista e insensibile, mi rallegrava.

(lessico; struttura della frase)

 

 

Pensano di aver sempre ragione e spesso e volentieri non ci provano neanche a capirti.

(lessico, pleonasmo)

 

 

 

C’è anche chi commette volontariamente ingiustizie per alzare i voti a scuola.

(lessico)

 

 

Oltre a chi sceglie e a chi viene imposta c’è un altro tipo di solitudine: quella finta.

(sintassi)

 

 

La solitudine è l’unico mezzo attraverso il quale si può cercare l’infinito, secondo me.

(ordine delle parole)

 

 

Bisogna trovare persone con cui si sta bene e non importa il giudizio degli altri.

(sintassi)

 

 

Per alcuni è davvero la solitudine la via per essere felici, ma si deve esserne sicuri, altrimenti si ha solo solitudine interiore e questo fa soffrire.

(sintassi)

 

 

Altri tipi di solitudine possono essere causati dai rapporti di coppia, dove i coniugi cercano di ritagliarsi dello spazio per stare da soli.

(sintassi e struttura logica)

 

 

Dopo aver commesso errori gravi, si resta con il rimorso di non essere riusciti a rimediarli.

(sintassi)

 

 

Chi si droga commette un grave errore, che renderà la sua vita un gioco da cui è facile entrare ma assai difficile uscire.

(sintassi, punteggiatura)

 

 

 

venerdì 23 gennaio 2015

La lettera scritta da una vittima di atti di bullismo


Una settimana fa una 14enne è stata aggredita a Vigevano (Pavia) da tre 16enni che le hanno provocato lesioni giudicate guaribili in 10 giorni. Secondo i carabinieri le tre - denunciate al Tribunale per i minorenni - si sarebbero giustificate sostenendo che la ragazza aveva passeggiato lungo gli itinerari da loro considerati «territorio di caccia» ai ragazzi. Questa è la lettera aperta che la vittima ha inviato al «Corriere della Sera».

 

 

«Ho deciso di fidarmi degli adulti: così ho sconfitto i bulli»

 

di Alice

 

Sono la quattordicenne che è stata picchiata fuori dalla scuola da tre ragazze sedicenni a Vigevano la scorsa settimana.

Io sono una ragazza fortunata: ho una bella famiglia, ho due genitori con cui sono libera di parlare di tutto, ho un fratello dispettoso, ma al quale voglio bene anche se mi chiama «Medusa» perché dice che con lui ho lo sguardo cattivo, ho due gatte pestifere e ho buone amiche.

Sono brava a fare i cup cake, mi è venuta la passione guardando in tivù Buddy Valastro. La maggior parte delle volte cucino con il mio papà (i nostri ultimi esperimenti insieme sono stati il sushi e gli involtini primavera), ascolto la musica rap, disegno fumetti e adoro giocare con la Wii e ai videogame. Da grande voglio fare la pasticciera.

Quello che mi è successo a scuola non me lo aspettavo. Una delle tre ragazze che mi hanno aggredita la conoscevo e mi aveva preso di mira da un po’, ma non pensavo che sarebbe arrivata a tanto. Forse ce l’aveva con me perché anche se frequento la prima classe sono stata scelta per un progetto e lei no ed è più grande di due anni. Ma è una cosa che penso io, non sono sicura.

Quel giorno mi stavano aspettando fuori da scuola all’uscita. Una faceva il palo, mentre le altre a turno mi tiravano calci. Fortunatamente i miei compagni erano lì e più di una volta hanno provato a dividerci, anche se le tre ragazze hanno continuato a picchiarmi. Dopo mi è venuto in soccorso un signore giovane che ha provato a farmi calmare e mi ha portato a casa in macchina. Colgo l’occasione per ringraziare sia lui che i miei compagni.

Una cosa che vorrei dire sul bullismo è che questa gente dimostra solo vigliaccheria nel presentarsi in gruppo per affrontare un solo individuo; così facendo dimostrano solo di aver paura. Suggerisco a tutti quei ragazzi e bambini che vengono picchiati dai bulli di sentirsi liberi di raccontare ai genitori quello che gli succede o comunque di parlare con un adulto di cui possono veramente fidarsi. È inutile nascondersi perché nel bene e nel male le cose si vengono a sapere lo stesso. Bisogna parlare soprattutto se è una situazione come la mia o come quella di tante altre persone, ma alle vittime dico: è bene farvi aiutare perché mi sembra inutile che gli altri vi rovinino la vita per niente, sono persone che non si meritano né la vostra attenzione né la vostra fiducia, ma soprattutto non si meritano il vostro rispetto e la vostra amicizia.

Lunedì tornerò a scuola, se il medico dice che va bene, accompagnata da mio papà. Io camminerò a testa alta e non avrò paura, perché queste ragazze che mi hanno aggredito alla fine si isoleranno da sole.

Spero che questa lettera possa aiutare altri a prendere coraggio e a denunciare i fatti di bullismo, perché si può sconfiggere.

(Corriere della Sera, 23 gennaio 2015)