domenica 16 dicembre 2018

Maupassant - Compare Giuda

Compare Giuda
Guy de Maupassant

Tutto quel paese appariva straordinario, segnato da un’impronta di grandezza quasi religiosa e di lugubre desolazione.
In mezzo a una gran cerchia di colline nude, su cui crescevano soltanto ginestre e, qua e là, strane querce contorte dal vento, si stendeva un ampio stagno di acqua nera e morta sulla quale tremolavano migliaia di canne.
Sulle rive di quel tetro lago c’era una sola casa, una casupola bassa dove abitava un vecchio barcaiolo, compare Joseph, che viveva della sua pesca. Tutte le settimane portava il pesce nei paesi vicini e tornava con le poche provviste che gli bastavano a vivere.
Volli andare a trovare quel solitario, che mi offrì di andare con lui a levar le nasse. Accettai.
La barca era vecchia, tarlata, rozza. E lui, magro e ossuto, remava con un movimento monotono e sciolto che cullava la mente, già avvolta nella tristezza dei luoghi.
Mi pareva d’essere portato ai primi tempi del mondo, in mezzo a quel paesaggio antico, in quella barca primitiva governata da un uomo di altri tempi.
Levò le reti e buttò i pesci ai suoi piedi con gesti di pescatore biblico. Poi volle condurmi fino all’ estremità della palude, e sull’altra riva vidi una rovina, una capanna diroccata con una croce sul muro, una croce enorme e rossa che pareva tracciata col sangue, sotto gli ultimi bagliori del sole al tramonto.
Chiesi:
«Che cos’ è?»
L’uomo prima si segnò, poi rispose:
«Là è morto Giuda.»
Non fui sorpreso, come se mi fossi aspettato quella strana risposta.
Tuttavia insistei:
«Giuda? quale Giuda?»
Rispose:
«L’ebreo errante, signore.»
Lo pregai di raccontarmi la leggenda. Ma era più d’una leggenda; era una storia, quasi recente, poiché compare Joseph aveva conosciuto quell’uomo.
Una volta la capanna era abitata da una specie di mendicante, una donna alta che viveva della pubblica carità. Da chi avesse avuto la capanna, compare Joseph non se lo ricordava più. Una sera un vecchio con la barba bianca, un vegliardo che dimostrava duecento anni e si trascinava a stento, passando chiese l’elemosina a quella poveretta.
Costei disse:
«Sedetevi, vecchio: quello che c’è qui è di tutti, perché viene da tutti.»
Lui si sedette su un sasso davanti alla porta. Spartì con la donna il pane, il giaciglio di foglie, la casa.
Non se ne andò più: aveva finito i suoi viaggi.
Compare Joseph aggiungeva:
«La Santa Vergine ha permesso tutto questo, perché è stata una donna ad aprire la porta a Giuda.»
Difatti quel vecchio vagabondo era l’ebreo errante.
In paese non lo seppero subito, ma presto cominciarono a sospettarlo perché lui camminava sempre, tanto ci era abituato.
C’era un altro motivo che aveva fatto nascere i sospetti: la donna che l’aveva preso in casa era considerata ebrea, perché nessuno l’aveva mai vista in chiesa.
Nel giro d’una trentina di chilometri la chiamavano "l’ebrea", e quando i bambini del paese la vedevano" arrivare a chiedere, gridavano: «Mamma, mamma, è arrivata l’ebrea!».
Lei e il vecchio cominciarono ad andare per i paesi vicini, stendendo la mano a tutte le porte, balbettando suppliche a tutti i passanti. Furono visti a ogni ora del giorno, per i sentieri sperduti, lungo i paesi, oppure mangiando un tozzo di pane all’ombra d’un albero solitario, nel gran calore meridiano.
Nella contrada cominciarono a chiamarlo "compare Giuda".
Un giorno portò nella bisaccia due maialini vivi, che gli erano stati regalati in una fattoria perché aveva guarito il fattore da un male.
Smise di chiedere l’elemosina, occupato a far girare i suoi maiali perché mangiassero, a portarli lungo lo stagno, sotto le querce isolate nelle vallette vicine. Invece la donna vagava sempre in cerca di elemosine, e tutte le sere tornava alla capanna.
Neanche lui andava mai in chiesa, e non l’avevano mai visto segnarsi davanti ai crocifissi. Di questo si parlava molto.
Una notte la sua compagna ebbe la febbre e cominciò a tremare come una vela agitata dal vento. Lui andò fino al paese a cercar medicine, poi si rinchiuse con lei e per sei giorni non lo videro più.
Il parroco, avendo sentito dire che l’“ebrea” stava per morire, andò a recare il conforto della fede alla moribonda , e a portarle gli ultimi sacramenti. Era ebrea? Non lo sapeva. In ogni caso, cercava di salvarle l’anima.
Appena ebbe bussato alla porta, compare Giuda apparve sulla soglia, ansando, con gli occhi lampeggianti, la gran barba mossa come acqua che gronda, e mandò imprecazioni in una lingua ignota, stendendo le magre braccia, per impedire al prete di entrare.
Il parroco cercò di parlare, offrì la sua borsa e le sue cure; ma il vecchio seguitava a insultarlo, e con la mano faceva il gesto di scagliargli pietre. Il prete se ne andò seguito dalle maledizioni del mendicante.
Il giorno seguente la compagna di compare Giuda morì. La seppellì lui stesso davanti alla porta. Era gente così da poco che nessuno se ne curò.
Lo rividero condurre i porci lungo lo stagno e sui pendii. Ricominciò anche a mendicare, per aver da mangiare. Ma non gli davano quasi più nulla, per via delle dicerie che correvano sul suo conto. E tutti sapevano in che modo avesse accolto il parroco.
Sparì. Era la settimana santa. Nessuno se ne occupò.
Il lunedì di Pasqua un gruppo di giovanotti e di ragazze che s’erano spinti a passeggiare fino allo stagno, udirono nella capanna un gran tramestio. La porta era chiusa; i giovanotti la sfondarono e i due maiali schizzarono fuori saltando come caproni. Non furono più visti.
Tutti entrarono e videro per terra dei vecchi stracci, il cappello del mendicante, ossa, sangue secco e rimasugli di carne nelle orbite d’un teschio.
I suoi maiali l’avevano divorato.
E compare Joseph aggiunse:
«Fu di venerdì santo, alle tre del pomeriggio.»
Domandai:
«Come lo sapete?»
Rispose:
«Non c’è alcun dubbio.»
Non cercai di fargli capire come fosse naturale che le bestie affamate avessero mangiato il loro padrone morto improvvisamente nella capanna.
Quanto alla croce sul muro, era apparsa una mattina senza che si sapesse quale mano l’avesse tracciata, in quello strano colore.
Da allora nessuno dubitò più che l’ebreo errante fosse morto in quel luogo.
Lo credetti anch’io, per un’ora.

venerdì 7 dicembre 2018

Boccaccio - Lisabetta da Messina


Quarta Giornata – Storia 5

(trascrizione di Aldo Busi)



Lisabetta e il vaso di basilico

Filomena:

Tre giovani fratelli di Messina, commercianti di mestiere, si erano ritrovati con un bel patrimonio alla morte del padre, che veniva da San Gimignano, e avevano una sorella, Lisabetta, ragazza molto bella e con la testa a posto, alla quale, chissà perché, i tre fratelli non avevano ancora trovato marito.

I tre fratelli avevano in una loro bottega un giovanissimo commesso pisano di nome Lorenzo, di bell’aspetto e modi accattivanti, che si occupava di un po’ di tutto, dall’acquisto alla vendita. A forza di averlo sotto gli occhi, Lisabetta stranamente se ne invaghì. Quando Lorenzo se ne accorse, cominciò una dopo l’altra a lasciare le morose che aveva in giro e a concentrarsi sul pensiero di lei; siccome l’attrazione reciproca era ormai indomabile, non ci misero molto a prender confidenza e passare all’azione.

I loro interludi di sesso appassionato divennero ben presto una consuetudine divorante e sempre meno circospetta e, forse per una certa dose di incoscienza sopravvenuta, una notte accadde che il fratello maggiore di Lisabetta la vide, a sua insaputa, mentre si dirigeva in punta di piedi verso la camera di Lorenzo. Quella rivelazione fu per lui un boccone troppo amaro da ingoiare ma, chiamato a raccolta tutto il suo buon senso, pensò che la cosa più ragionevole fosse starsene zitto e non far niente subito. Trascorse così tutta la notte a rimuginare su questo fatto increscioso increscioso e la mattina dopo raccontò ai fratelli quello che aveva scoperto fra Lisabetta e Lorenzo. Dopo una lunga discussione, decisero di passare la cosa sotto silenzio e con lei di far finta di niente, finché non si fosse presentata l’occasione giusta per troncare di netto la storia senza coinvolgere in uno scandalo né loro stessi né la sorella.

Continuarono così a ridere e a scherzare con Lorenzo come facevano di solito, finché un giorno, con la scusa di volere andare a spassarsela un po’ fuori città, invitarono il ragazzo a seguirli. Durante l’allegra trasferta, capitarono in un posto isolato lontano da ogni passaggio e uccisero Lorenzo, completamente inerme e lontano mille miglia dal benché minimo sospetto, e lì lo seppellirono, senza che nessuno si accorgesse di nulla. Quando ritornarono a Messina, sparsero la voce che lo avevano mandato a sbrigare alcune commissioni. Dapprima la sua assenza non destò alcun sospetto, dato che capitava spesso che i tre fratelli lo mandassero di qui e di là come loro uomo di fiducia, ma Lorenzo non tornava più e Lisabetta, che sentiva crescere una strana nostalgia, cominciò a preoccuparsi e a fare un sacco di domande ai fratelli, finché uno di loro, esasperato dall’insistenza della sorella, le disse:

«Ma si può sapere perché continui a chiedere di Lorenzo? Ti importa così tanto di lui? Se non la finisci con questo interrogatorio, ti rispondiamo noi per le rime.»

Nacque un brutto presentimento nella ragazza, che smise di fare domande e cominciò a vivere in silenzio il suo dolore e la sua tristezza, anche se spesso di notte chiamava Lorenzo a alta voce, fra i singhiozzi, lo pregava di ritornare da lei e, lungi dal rassegnarsi, non abbandonava la speranza di vederselo comparire davanti.

Una notte che Lisabetta a furia di piangere era scivolata nel sonno quasi senza accorgersene, vide in sogno Lorenzo che, pallido e stravolto e con i vestiti strappati e fradici, le diceva:

«Oh, Lisabetta, tu non fai altro che chiamarmi e soffrire per la mia lunga assenza, ma io non merito le tue parole di biasimo. Io non posso più ritornare da te, perché i tuoi fratelli mi hanno ucciso quello stesso giorno che mi hai visto per l’ultima volta.»

Poi le disegnò la mappa di dove l’avevano sotterrato e le chiese di non chiamarlo e di non aspettarlo più e scomparve.

Lisabetta si svegliò di soprassalto e, prestando ciecamente fede alla visione, si mise a piangere disperata.

Il giorno dopo le mancò il coraggio di affrontare i suoi fratelli, ma decise di andare comunque nel luogo indicato da Lorenzo per verificare se le silenti parole del sogno corrispondevano alla realtà; chiese il permesso di fare una passeggiata nei dintorni di Messina con una sua vecchia tata che era al corrente di tutto. Le due donne si precipitarono sul posto, Lisabetta tolse via le foglie morte e, dove il terreno le sembrava meno duro, cominciò a scavare.

Non dovette però rimuovere molta terra per scoprire il cadavere ancora perfettamente conservato del suo infelice amante e capire che quel sogno era stata una vera e propria rivelazione. Nonostante il cuore straziato dalla pena, si rese conto che non era quello il momento di piangere, ah, se avesse potuto si sarebbe portata via il corpo intero per seppellirlo come meritava, ma era impossibile; con un coltello gli tagliò via la testa come meglio poté, la avvolse in un asciugamano, la mise in grembo alla vecchia domestica, ricoprì con la terra il resto del corpo e, senza essere vista da nessuno, ritornò a casa.

Una volta rinchiusasi in camera sua, cominciò a piangere sconsolatamente, lasciando che le lacrime scorressero sopra a lavare la testa, riempiendola di baci in ogni parte. Poi prese una bella terracotta, uno di quei vasi in cui crescono la maggiorana o il basilico, vi collocò la testa avvolta in un drappo di seta, la ricopri di terra e vi piantò parecchi germogli di bellissimo basilico salernitano. Da quel giorno cominciò a innaffiarlo solo con acqua di rose o di fiori d’arancio oppure con le sue lacrime, e prese l’abitudine di sedersi sempre vicino a questo vaso, custode segreto del suo Lorenzo, per guardarlo con occhi persi nei chiaroscuri del rimpianto, finché non si sporgeva di nuovo sopra le piantine di basilico per bagnarle con un nuovo pianto.

Vuoi per l’assiduità delle cure di Lisabetta, vuoi perché la testa putrefatta aveva concimato la terra in modo straordinario, quel basilico diventò magnifico e profumatissimo. I vicini di casa, intanto, avevano notato le strane abitudini della ragazza e un giorno dissero ai fratelli che non riuscivano a spiegarsi dove fosse andata a finire tutta la sua bellezza, gli occhi sembravano scomparsi da tanto si erano infossati:

«Guardate, noi ci siamo accorti che Lisabetta ogni giorno fa così e cosà.»

I fratelli si misero allora a sorvegliarla, e siccome tutte le prediche si rivelavano inutili, decisero di sottrarle la terracotta. Quando Lisabetta scoprì che il suo basilico era scomparso, cominciò a cercarlo, ma poiché era introvabile chiese con insistenza ai suoi fratelli di restituirglielo. Fu come chiedere a un muro, e a furia di piangere e disperarsi, si ammalò, ma nemmeno durante l’infermità smetteva di chiedere la restituzione del suo vaso.

I fratelli non capivano perché questo vaso fosse così importante per la ragazza e vollero vedere che cosa c’era dentro: quando rovesciarono fuori la terra, videro il pezzo di seta e la testa che vi era avvolta e, poiché non era ancora del tutto decomposta, non fecero fatica a riconoscere i riccioli di Lorenzo. I tre ci rimasero a dir poco di sasso e per paura che la faccenda diventasse di pubblico dominio, sotterrarono la testa e, senza dare alcuna giustificazione, troncarono ogni affare e si trasferirono a Napoli.

Lisabetta, invece, senza smettere di piangere e di chiedere del suo vaso, morì con le lacrime negli occhi. Ma dopo, quando la cosa si riseppe, qualcuno compose quella canzone che si canta ancora oggi e che dice:

Ah, chi fu mai il malefico cristiano

che mi rubò quel vaso

del basilico amato siciliano...




mercoledì 21 novembre 2018

Maupassant - I gioielli


Guy de Maupassant
I GIOIELLI

Il signor Lantin, dopo avere incontrato la giovane donna durante una serata in casa del suo vice capufficio, fu avvolto dall' amore come in una rete.
Era figlia d'un esattore di provincia, morto da parecchi anni. In seguito s'era stabilita a Parigi con sua madre, la quale frequentava alcune famiglie borghesi del suo quartiere con la speranza di trovar marito alla giovane. Erano povere e onorate, tranquille e amabili. La ragazza sembrava il modello perfetto della donna onesta a cui il giovane sensato sogna di affidare la sua vita. La sua bellezza modesta aveva il fascino d'un angelico pudore, e il lievissimo sorriso che non lasciava mai le sue labbra sembrava un riflesso del suo cuore.
Tutti ne cantavano le lodi; tutti coloro che la conoscevano ripetevano: «Beato chi se la piglierà. Non si può trovare di meglio».
Il signor Lantin, che allora era impiegato di prima categoria al ministero dell'Interno, con lo stipendio annuale di tremila e cinquecento franchi, la chiese in moglie e la sposò.
Con lei fu straordinariamente felice. Governò la casa con una economia tanto accorta che sembravano vivere nel lusso. Non esistevano premure, delicatezze, moine ch'ella non prodigasse a suo marito; e la seduzione della sua persona era tanto grande che lui, sei anni dopo il primo incontro, l’amava più dei primi giorni.
Le rimproverava soltanto due abitudini, quella del teatro e quella dei gioielli falsi.
Le sue amiche (conosceva alcune mogli di modesti funzionari) le procuravano continuamente dei palchi per le commedie di successo, perfino per le prime; e lei si tirava dietro il marito, volente o nolente, il quale dopo la giornata di lavoro si stancava terribilmente a quegli svaghi. La supplicò di andare agli spettacoli con qualche signora di conoscenza, che dopo la riaccompagnasse a casa. Lei resistette a lungo prima di cedere, parendole sconveniente. Alla fine si decise, per fargli piacere, ed egli le fu infinitamente grato.
Ben presto il gusto del teatro fece nascere in lei il bisogno di adornarsi. I suoi abiti rimasero semplicissimi, sempre di buon gusto ma modesti; e la sua grazia tranquilla, la sua grazia irresistibile, umile e sorridente, pareva prendere un sapore nuovo dalla semplicità dei vestiti; ma prese l’abitudine di appendersi alle orecchie due grosse pietre del Reno che parevano diamanti, e di portare collane di perle false, braccialetti di similoro, pettini ornati di varie conterie che imitavano le pietre di valore.
Il marito, un po' seccato per quell'amore dell'orpello, le ripeteva: «Mia cara, quando non si ha la possibilità di comprarsi i gioielli veri, ci si adorna della propria bellezza e della propria grazia, che sono sempre i gioielli più rari.
Lei sorrideva con dolcezza e rispondeva: «Che vuoi farci? Mi piace. E’ il mio vizio. Lo so che hai ragione, ma non mi posso mica riformare. Mi sarebbe piaciuto tanto avere dei gioielli!».
E si faceva scorrere tra le dita le collane di perle, faceva scintillare le faccette dei cristalli tagliati, dicendo: «Ma guarda, guarda com'è fatto bene. Sembra vero!».
Lui sorrideva dicendo: «Hai dei gusti da zingara».
Qualche volta la sera, quando stavano seduti tutti e due accanto al fuoco, lei portava sul tavolino dove prendevano il tè la scatola di marocchino in cui teneva chiuse le “cianfrusaglie”, secondo l'espressione del signor Lantin; e si metteva a contemplare i gioielli finti con un'attenzione appassionata, come se avesse goduto un piacere segreto e profondo; voleva mettere per forza una collana intorno al collo del marito, e poi rideva di cuore esclamando: «Quanto sei buffo!» e gli si gettava tra le braccia baciandolo con passione.
Una notte d'inverno rientrò dall'Opéra tutta piena di brividi. Il giorno seguente tossiva. Otto giorni dopo morì d'una infiammazione ai polmoni.
Per poco Lantin non la seguì nella tomba. La sua disperazione fu così tremenda che in un mese gli si imbiancarono i capelli. Piangeva dalla mattina alla sera con l'anima straziata da un dolore insopportabile, perseguitato dal ricordo, dal sorriso, dalla voce, da tutte le grazie della defunta.
Il tempo non placò il suo dolore. Spesso in ufficio, mentre i suoi colleghi facevano quattro chiacchiere sui fatti dei giorno, d'improvviso gli si vedevano gonfiarsi le gote, raggrinzirsi il naso, riempirsi di lacrime gli occhi; faceva una smorfia orrenda e cominciava a singhiozzare.
Aveva lasciato intatta la camera della sua compagna e vi si chiudeva tutti i giorni per pensare a lei; e tutti i mobili, perfino i vestiti, erano restati come si trovavano l’ultimo giorno.
Ma la vita cominciava a farsi dura per lui. Il suo stipendio, che in mano alla moglie bastava per tutti i bisogni della casa, ora era insufficiente per lui solo. Si chiedeva con stupore come lei fosse riuscita a destreggiarsi per fargli bere sempre vini squisiti e mangiare cibi delicati, che ora non riusciva più a procurarsi con i suoi modesti introiti.
Fece qualche debito e badò al soldo come tutta la gente ridotta a vivere di espedienti. Finalmente una mattina, trovandosi con le tasche vuote una settimana prima della fine del mese, pensò di vendere qualcosa; e subito gli venne in mente di sbarazzarsi delle “cianfrusaglie” di sua moglie, perché in fondo al cuore gli era rimasto una specie di rancore per quel falsume che prima lo irritava. Perfino vederli ogni giorno gli sciupava un po' il ricordo della sua diletta.
Cercò a lungo nel luccicante mucchietto che lei aveva lasciato, perché fino agli ultimi giorni di vita aveva seguitato ostinatamente a comprare, portando una cosa nuova quasi ogni sera; e si decise per la grande collana, che lei preferiva, pensando che potesse valere sette o otto franchi perché, per essere un falso, era un lavoro eseguito davvero con cura.
Se la mise in tasca e si diresse verso il ministero passando dai boulevards e cercando una gioielleria che gli ispirasse fiducia.
Ne trovò una ed entrò, un po' vergognoso di mettere in mostra la sua miseria, andando a vendere un oggetto si così scarso valore.
«Signore», disse al negoziante, «vorrei sapere quanto stimate questo oggetto.»
L’uomo lo prese, lo esaminò, lo rigirò, lo soppesò, prese una lente, chiamò il commesso, gli disse qualcosa sottovoce, rimise la collana sul banco e la guardò a distanza per meglio giudicare l'effetto.
Il signor Lantin, imbarazzato da tutte quelle cerimonie, aprì la bocca per dire: «Oh, so bene che non vale nulla … » quando il gioielliere disse:
«Questa collana, signore, vale da dodici a quindicimila franchi; ma non posso comprarla se non conosco la sua esatta provenienza.»
Il vedovo sgranò enormemente gli occhi e restò a bocca aperta, senza capire. Alla fine balbettò: «Ma davvero … siete sicuro?». L'altro interpretò male il suo stupore e disse con tono asciutto: «Potete andare da un altro per sentire se vi danno di più. Per me, vale al massimo quindicimila franchi. Tornate, se non trovate di meglio».
Il signor Lantin, completamente inebetito, si riprese la collana e se ne andò, obbedendo a un confuso bisogno di restar solo, e di pensare.
Ma appena fu in strada gli venne da ridere e si disse: «Che imbecille! oh, che imbecille! Meritava che l’avessi preso in parola! Un gioielliere che non è neanche capace di distinguere la roba vera da quella falsa».
Entrò in un'altra bottega, al principio di rue de la Paix. Appena ebbe visto il monile, il gioielliere esclamò:
«Perbacco, la conosco bene questa collana: viene di qui.»


Il signor Lantin, molto agitato, chiese:
«Quanto vale?»
«Io l'ho venduta per venticinquemila franchi, signore. Sono disposto a riprenderla per diciottomila se, in obbedienza alle norme vigenti, mi direte in quale modo ne siete venuto in possesso.» Questa volta il signor Lantin dovette sedersi, annientato dallo stupore. «Ma guardatela bene», disse. «Fino a oggi io ho creduto che fosse … falsa.»
Il gioielliere disse: «Volete dirmi come vi chiamate, signore?».
«Certo. Mi chiamo Lantin, sono impiegato al ministero dell'Interno, e abito in rue des Martyres, numero sedici.»
Il negoziante aprì il registro, cercò e disse: «Infatti questa collana è stata mandata all'indirizzo della signora Lantin, rue des Martyres sedici, il 20 luglio 1876».
I due uomini si guardarono negli occhi, I'impiegato sconvolto dalla sorpresa, l’orefice fiutando un ladro.
Quest'ultimo aggiunse: «Potete lasciarmi questo oggetto soltanto per ventiquattr'ore? Vi faccio una ricevuta».
Il signor Lantin balbettò: «Sì, sì... certo». E uscì piegando il foglietto e infilandoselo in tasca.
Poi attraversò la strada, la risalì, si accorse di avere sbagliato, scese alle Tuileries, passò la Senna, si accorse di aver nuovamente sbagliato, tornò agli Champs-Élysées senza avere in testa un'idea chiara. Cercava di ragionare, di capire. Sua moglie non aveva potuto comprare un oggetto di tanto valore. Certo no. E allora era un regalo! Un regalo? Un regalo di chi? Perché?
S’era fermato, immobile in mezzo al viale. L'orrendo dubbio lo sfiorò. Lei? Allora anche tutti gli altri gioielli erano dei regali! Gli parve che la terra ondeggiasse; che un albero davanti a lui crollasse; stese le braccia e cadde, privo di sensi.
Riprese conoscenza in una farmacia, dove l’avevano portato alcuni passanti. Si fece condurre a casa e vi si rinchiuse.
Pianse disperatamente fino a notte, mordendo il fazzoletto per non urlare. Poi si coricò, affranto dalla fatica e dal dolore, e dormì d'un sonno pesante.
Lo svegliò un raggio di sole, e con lentezza si alzò per andare al ministero. Dopo un simile colpo era difficile rimettersi a lavorare. Pensò che avrebbe potuto scusarsi col capufficio, e gli scrisse. Poi gli venne in mente che doveva tornare dal gioielliere; e arrossì dalla vergogna. Restò lungamente a riflettere. Comunque, non poteva lasciare la collana a quell'uomo. Si vestì e uscì.
Era una bella giornata, il cielo azzurro si stendeva sulla città che pareva sorridere. Alcuni passanti davanti a lui andavano a zonzo, con le mani in tasca.
Guardandola, Lantin pensò: “Com'è felice chi ha soldi! Col denaro ci si può liberare anche dei dispiaceri, si va dove si vuole, si viaggia, ci si distrae. Oh! se fossi ricco!".
Si accorse di aver fame, perché era digiuno dalla sera prima. Ma aveva le tasche vuote, e si ricordò della collana. Diciottomila franchi! diciottomila franchi! Che somma!
Arrivò in rue de la Paix e cominciò a passeggiare su e giù per il marciapiede, davanti alla bottega. Diciottomila franchi! Per venti volte fu sul punto d'entrare, trattenuto sempre dalla vergogna.
Però aveva fame, e tanta, e neanche un centesimo in tasca. Si decise all'improvviso, attraversò di corsa la strada per non darsi tempo di riflettere e si precipitò nella gioielleria.
Appena l'ebbe visto, il negoziante accorse sollecito, gli offrì una sedia con sorridente cortesia. Vennero anche i commessi, e guardavano in tralice Lanvin, con bagliori d'allegria sulle labbra e negli occhi.
Il gioielliere disse: «Mi sono informato, signore; e, se siete sempre della stessa idea, sono pronto a pagarvi la somma che vi ho proposto».
«Certo», balbettò l'impiegato.
L'orefice tirò fuori da un cassetto diciotto grandi biglietti, li contò, li porse a Lantin, il quale firmò una ricevuta e con mano fremente si mise il denaro in tasca.
Sul punto di uscire si voltò verso il negoziante che seguitava a sorridere e disse, chinando lo sguardo: «Avrei … avrei degli altri gioielli ... che mi vengono dalla stessa eredità. Sareste disposto a prenderli?».
Il negoziante s'inchinò: «Certo, signore». Uno dei commessi uscì, per ridere con comodo; un altro si soffiava fragorosamente il naso.
Lantin, impassibile, rosso e serio, disse: «Ora ve li porto».
E chiamò una carrozza per andare a prendere i gioielli.
Quando, un'ora dopo, tornò nel negozio, non aveva ancora mangiato. Cominciarono a esaminare i gioielli uno per uno, stimandoli. Provenivano quasi tutti da quella gioielleria.
Ora Lantin discuteva le valutazioni, s'incolleriva, pretendeva di vedere i registri di vendita e, via via che la somma aumentava, parlava con voce sempre più alta.
I grandi orecchini valevano ventimila franchi, i braccialetti trentacinquemila, gli spilli, gli anelli e i medaglioni sedicimila, un finimento di smeraldi e zaffiri quattordicimila, un solitario che, sospeso a una catena d’oro, formava una collana, quarantamila. In tutto si arrivava a centoventiseimila franchi.
Il negoziante disse, con beffarda bonarietà: «Ecco una persona che spendeva in gioielli tutti i suoi risparmi».
Lantin disse con gravità: «E’ un modo come un altro d’investire il denaro». E se ne andò, dopo avere concordato con l'acquirente una controperizia per il giorno seguente.
Appena fu in strada guardò la colonna Vendôme con la voglia di arrampicarcisi, come se fosse stato l'albero della cuccagna. E si sentiva così leggero che avrebbe saltato a piè pari la statua dell'imperatore arrampicata lassù nel cielo.
Andò a mangiare da Voisin e bevve vino da venti franchi la bottiglia.
Poi prese una carrozza e fece un giro nel Bois de Boulogne. Guardava le altre carrozze con un certo disprezzo, bramoso di gridare a quelli che passavano: «Sono ricco anch'io. Ho duecentomila franchi!».
Gli venne in mente il ministero. Vi si fece condurre, entrò decisamente dal suo capufficio e annunciò: «Signore, vengo a dimettermi. Ho ereditato trecentomila franchi». Andò a salutare gli ex colleghi, facendoli partecipi dei suoi progetti di vita nuova; poi andò a mangiare al café Anglais.
Trovandosi accanto un signore che gli parve raffinato non poté trattenersi dal confidargli, con una certa qual civetteria, di avere appena ereditato quattrocentomila franchi.
Per la prima volta in vita sua non si annoiò al teatro, e passò la notte con alcune ragazze allegre .
Si risposò dopo sei mesi. La sua seconda moglie era onestissima, ma di carattere difficile. Lo fece soffrire molto.

venerdì 16 novembre 2018

Maupassant - La collana


Guy de Maupassant
LA COLLANA
Era una di quelle ragazze belle e seducenti che nascono, come per un errore del destino, in una famiglia d'impiegati. Era senza dote, senza speranze, non aveva alcuna possibilità d'essere conosciuta, capita, amata e sposata da un uomo ricco e raffinato; e lasciò che la sposassero a un impiegatuccio del ministero dell’Istruzione pubblica.
Fu semplice, non potendo far lussi, ma infelice, come se fosse degradata; poiché le donne non hanno casta o razza e la bellezza, la grazia e il fascino sono per loro nascita e famiglia. L’innata finezza, l’istintiva eleganza, la prontezza di spirito sono l'unica loro gerarchia, che rende le popolane uguali alle più grandi dame.
Soffriva di continuo, sentendosi nata per tutte le delicatezze e tutti i lussi. Soffriva per la povertà della sua abitazione, per la miseria delle pareti, per il logorio delle sedie, per la bruttezza delle stoffe. Tutte queste cose, di cui un'altra donna della sua condizione non si sarebbe nemmeno accorta, la torturavano e la irritavano. Nel vedere la piccola bretone che le faceva le umili faccende di casa sua, si destavano in lei desolati rimpianti, sogni folli. Pensava ad anticamere silenziose, ovattate da parati orientali, illuminate da lunghe torciere di bronzo, ad alti valletti in polpe che sonnecchiano nelle grandi poltrone, intorpiditi dal pesante calore dei termosifoni. Pensava ai saloni rivestiti di sete antiche, ai mobili pregiati adorni di ninnoli preziosi, ai salotti civettuoli, profumati, fatti per la chiacchierata delle cinque coi più intimi amici, uomini noti e ricercati di cui tutte le donne desiderano e cercano l’attenzione.
Quando si sedeva per mangiare alla tavola tonda coperta da una tovaglia di tre giorni, davanti a suo marito che scoperchiava la zuppiera esclamando estasiato: - Ah, che bella minestra!... Non c'è nulla di meglio... - pensava ai pranzi raffinati, alle lucenti argenterie, agli arazzi che popolano le pareti di antichi personaggi e strani uccelli, in mezzo a foreste incantate; pensava alle vivande squisite servite in bellissimi piatti, alle galanterie sussurrate ed ascoltate con un sorriso di sfinge, mangiando la carne rosea d'una trota o un'anca di fagianella.
Non aveva vestiti, non aveva gioielli – nulla. Ed erano le sole cose che le piacessero, quelle per cui si sentiva nata. Avrebbe voluto tanto piacere, essere invidiata, essere seducente e desiderata.
Aveva un'amica ricca, una compagna di convento, che non andava più a trovare perché soffriva troppo, tornando; e piangeva per giornate intere, di dolore, di rimpianto, di disperazione, di sconforto.

Una sera il suo marito tornò a casa tutto trionfante, tenendo in mano una grande busta:
- Ecco -, le disse, - c’è una cosa per te.-
Lei strappò nervosamente la busta e ne trasse un foglio intestato su cui era scritto: «Il ministro dell’Istruzione pubblica e la signora Georges Ramponneau hanno l'onore d'invitare il signore e la signora Loisel alla serata che avrà luogo lunedì 18 gennaio nei saloni del ministero».
Invece d'esser felice, come si figurava suo marito, lei buttò indispettita l'invito sulla tavola, mormorando:
- Che vuoi che me ne faccia?
- Ma, tesoro, pensavo che ti avrebbe fatto piacere. Non andiamo mai in nessun posto, e questa è proprio una bella occasione. Ce n’è voluto per aver l’invito! Lo cercano tutti, e per gli impiegati ce ne son pochi. Ci sarà tutto il mondo ufficiale.
Lei lo fissava corrucciata e disse con voce impaziente:
- Che vuoi che mi metta addosso, per andarci?
Lui non ci aveva pensato; balbettò:
- C’è il vestito che indossi per andare al teatro; mi pare molto bello.-
Tacque, stupito e confuso, nel vedere che sua moglie piangeva. Due lacrimoni colavano lentamente dagli angoli degli occhi agli angoli della bocca; e borbottò:
- Che hai? che hai? –
Con un violento sforzo lei si dominò e rispose con tono calmo, asciugandosi le guance umide:
- Nulla. Soltanto che non ho vestiti e alla festa non ci posso venire. Dai quell'invito a qualche collega che abbia la moglie messa un po' meglio di me.
Lui era dispiaciuto. Disse:
- Ascolta, Mathilde: quanto verrebbe a costare un vestito decente, che ti potrebbe servire anche in altre occasioni, qualcosa di semplice?-
Lei rifletté per qualche istante, facendo i conti e pensando a quale somma avrebbe potuto chiedere, senza provocare un immediato rifiuto e lo stupore sgomento dell'economo impiegatuccio.
Alla fine rispose, esitando:
- Non saprei con esattezza, ma forse potrei farcela con quattrocento franchi.-
Lui era lievemente impallidito, perché riservava proprio quella somma per comprarsi un fucile con cui andare a caccia l’estate seguente, nella pianura di Nanterre, insieme con certi amici che andavano là a tirare alle allodole, la domenica.
Però aveva risposto:
- Va bene. Ti do quattrocento franchi. Ma cerca di trovare un bel vestito.-
S'avvicinava il giorno della festa e la signora Loisel sembrava triste, inquieta, preoccupata. Eppure il vestito era pronto. Una sera suo marito le chiese:
- Che hai? Da qualche giorno mi sembri strana.-
Lei rispose:
- Mi dispiace non avere nemmeno un gioiello, una pietra, una cosa da mettermi addosso. Chissà come sembrerò misera... Quasi quasi preferirei non andare alla festa… -
Il marito disse:
- Puoi metterti dei fiori freschi. In questa stagione è molto fine. Con dieci franchi puoi comprarti due o tre splendide rose.-
Lei non era affatto convinta:
- No, no... Non c'è nulla di più umiliante che apparire povere in mezzo alle donne ricche.-
Il marito esclamò:
- Quanto sei sciocca! Vai dalla tua amica, la signora Forestier, e fatti prestare un gioiello da lei. Siete abbastanza amiche perché tu possa farlo.-
Lei mandò un gridolino di gioia:
- È vero. Non ci avevo pensato.-
Il giorno seguente andò dall’amica e le raccontò il suo cruccio.
La signora Forestier si diresse verso l'armadio a specchio, ne trasse un cofanetto, lo aprì e disse alla signora Loisel:
- Ecco, cara: scegli. -
Vide braccialetti, una collana di perle, una croce veneziana d'oro e pietre, di mirabile fattura. Si provava i gioielli davanti allo specchio, esitava, non sapeva decidersi a toglierseli, a riporli. Chiedeva:
- Non ne hai altri? –
- Ma sì.  Cerca, non so che cosa preferisci... –
A un tratto scoprì, in una scatola di raso nero, una collana di diamanti, bellissima; e il cuore le palpitò d’uno smodato desiderio. Nel prenderla le tremavano le mani. Se l'agganciò sopra il vestito accollato e restò a guardarsi, estatica.
Perplessa e ansiosa, domandò:
- Potresti prestarmi questa; questa soltanto? –
- Certo, prendila … -
Saltò al collo dell'amica, la baciò con foga, e fuggì col tesoro.

Venne la sera della festa. La signora Loisel trionfò. Era la più bella di tutte, elegante, graziosa, sorridente, fuor di sé dalla gioia. Tutti gli uomini la guardavano, chiedevano chi fosse, cercavano d'esserle presentati. Tutti i segretari di gabinetto vollero ballare il valzer con lei. Il ministro la notò.
Lei danzava, inebriata, con ardore, stordita dal piacere, senza pensare ad altro, nel trionfo della sua bellezza, nella gloria del successo, in una specie d'aureola di felicità formata da tutti quegli omaggi, dall'ammirazione, dai desideri suscitati, da quella vittoria così completa e così cara al cuore femminile.
Andò via verso le quattro di mattina. Da mezzanotte suo marito stava dormendo in un salottino, insieme con altri tre signori le cui mogli si divertivano moltissimo.
Lui le buttò sulle spalle il soprabito che aveva portato, un modesto soprabito che per la sua povertà contrastava con l'eleganza dell’abito da ballo. Lei se ne accorse e volle scappar via per non esser notata dalle altre donne che si avvolgevano in ricche pellicce.
Loisel la trattenne:
- Aspetta un momento. Prenderai un malanno. Vado a chiamare una carrozza.-
Ma lei, senza ascoltarlo, scese rapidamente le scale. Per strada non c'erano carrozze; e cominciarono a cercare, gridando ai cocchieri che vedevano passare a distanza.
Scesero verso la Senna, senza più speranze, tremando di freddo. E finalmente, sul lungofiume, trovarono uno di quei vecchi coupé nottambuli che a Parigi escono soltanto di notte, come vergognosi di mostrare alla luce la loro miseria.
Furono lasciati al portone di casa, in rue des Martyrs, e risalirono tristemente le scale. Per lei, era finito tutto; e lui pensava che, alle dieci, doveva trovarsi al ministero.
Davanti allo specchio lei si tolse il soprabito che le aveva coperto le spalle, per ammirarsi un’ultima volta nel suo splendore. Gettò un grido improvviso: la collana non c’era più!
Suo marito, già mezzo spogliato, le chiese:
- Che c'è?-
Lei si voltò, sgomenta:
- La collana... la collana della signora Forestier... non c’è più-
Lui si rizzò, sbigottito:
- Cosa? che dici? Ma non è possibile!-
Cercarono tra le pieghe del vestito e del soprabito, nelle tasche, dappertutto. Non c'era.
Lui chiese:
- Sei sicura che l'avevi ancora quando siamo usciti?
- Sì, me la sono toccata nell'atrio del ministero.
- Ma se l'avessi persa per la strada, si sarebbe sentita cadere. Dev'essere nella carrozza.
- Sì, può darsi... Hai preso il numero?
- No, e tu?
- Nemmeno io.
Si guardarono costernati. Loisel si rivestì.
- Vado a rifare la strada che abbiamo percorso a piedi, - disse, - per vedere se la trovo.-
E uscì. Lei rimase con l’abito da ballo addosso, senza aver forza di andare a letto, afflosciata su una sedia, col fuoco spento, vuota di pensieri.
Il marito tornò alle sette, a mani vuote.
- Scrivi alla tua amica, - disse, - che s'è rotto il fermaglio della collana, e che l'hai data ad aggiustare. Avremo tempo di pensar qualcosa.
Mathilde scrisse quel che lui dettò.

Dopo una settimana avevano perso ogni speranza.
Loisel, che era invecchiato di cinque anni, disse:
- Bisognerà comprarne un'altra...
Il giorno seguente presero l'astuccio e andarono dal gioielliere il cui nome era scritto dentro. Costui consultò il registro.
- No, signora, questa collana non l'abbiamo venduta noi. Soltanto l'astuccio è nostro.-
Andarono da un gioielliere all'altro, cercando una collana uguale alla prima, cercando di ricordarsi, sfiniti dal dolore e dall'angoscia.
In un negozio del Palais Royal trovarono un rosario di diamanti che pareva identico a quello che cercavano. Valeva quarantamila franchi; l’avrebbero dato per trentaseimila.
Pregarono il gioielliere di non venderlo prima di tre giorni. E posero come condizione che l'avrebbe ripreso indietro per trentaquattromila franchi, se avessero ritrovato l’altro entro febbraio.
Loisel possedeva diciottomila franchi che gli aveva lasciato suo padre. Il resto lo avrebbe preso in prestito.
Chiese mille franchi a questo, cinquecento a quello, cinque luigi qui, tre luigi là. Firmò cambiali, prese impegni disastrosi, si trovò a che fare con usurai e con ogni specie di strozzini. Compromise tutto il resto della sua vita, rischiò la sua firma senza neppure sapere se avrebbe potuto farle onore e, angosciato dal pensiero del futuro, della miseria nera che gli sarebbe piombata addosso, dalla prospettiva delle privazioni fisiche e delle torture morali, andò a comprare la collana nuova, posando sul banco del gioielliere i trentaseimila franchi.
Quando la signora Loisel consegnò la collana alla signora Forestier, costei le disse con tono seccato:
- Avresti potuto riportarmela prima; poteva servirmi...-
Non aprì l'astuccio, come Mathilde temeva. Se si fosse accorta dello scambio, che cosa avrebbe pensato? che avrebbe detto? Poteva anche trattarla da ladra.

La signora Loisel conobbe l'orrenda vita dei bisognosi. D’altronde decise subito, eroicamente: bisognava pagare quel tremendo debito; e lo avrebbe pagato. Licenziarono la servetta, cambiarono casa, andando a stare in una soffitta.
Lei conobbe le dure faccende di casa, le odiose fatiche della cucina. Rigovernò le stoviglie, logorandosi le unghie rosa sui tegami unti, sul fondo delle casseruole. Insaponò la biancheria sudicia, le camicie e gli stracci, facendoli asciugare su una corda; ogni mattina portò giù la spazzatura e portò su l'acqua, fermandosi a ogni piano per ripigliar fiato. Vestita come una donna del popolo, andava dall'erbaiolo, dal droghiere, dal macellaio, col paniere sottobraccio, tirando sui prezzi, facendosi ingiuriare pur di difendere a soldo a soldo il suo miserabile denaro.
Ogni mese dovevano pagare cambiali, rinnovarne altre, guadagnar tempo.
Il marito lavorava di sera a tenere la contabilità d'un commerciante; e spesso, di notte, faceva il copista, a cinque soldi la pagina.
Questa vita durò dieci anni.
Dopo dieci anni avevano restituito tutto, compresi gl'interessi degli strozzini e il cumulo degli interessi composti.
La signora Loisel sembrava una vecchia. Era diventata la donna forte, e dura, e rude, delle famiglie povere. Spettinata, con la gonnella di traverso e le mani rosse, parlava a voce alta, lavava l’assito buttandoci l'acqua a secchiate. Eppure talvolta, quando il marito era in ufficio, si sedeva accanto alla finestra e pensava a quella serata, a quel ballo, in cui era stata così bella e così festeggiata.
Che sarebbe accaduto se non avesse perso la collana? Chissà? chissà? Com'è strana la vita, come cambia! Basta tanto poco per perdersi o salvarsi!

Una domenica era andata a fare un giro agli Champs-Elysées per distrarsi dalle fatiche della settimana; e d’un tratto vide una signora a passeggio con un bambino: era la signora Forestier, sempre giovane, sempre bella, sempre attraente.
La signora Loisel si sentì turbata. Le avrebbe rivolto la parola? Sì, certamente. Anzi, ora che aveva pagato, poteva dirle tutto; perché no?
Le si avvicinò.
- Buonasera, Jeanne.-
L'altra non la riconosceva, stupita di sentirsi chiamare con tanta confidenza da quella popolana. Balbettò:
- Ma signora... Non... Credo che vi sbagliate...-
- No. Sono Mathilde Loisel.-
L'amica gettò un grido:
- Oh! povera Mathilde, come sei cambiata!-
- Sì... ho passato momenti duri, da quando non ci siamo più viste, e tanta miseria... per causa tua.-
- Mia? Ma come?-
- Ti ricordi quella collana di diamanti che mi hai prestato per andare a una festa del ministero?
- Certo; e allora?-
- Allora, l’avevo perduta.-
- Ma com'è possibile? se me l'hai restituita…-
- Te ne ho restituita un'altra uguale. Sono dieci anni che la stiamo pagando. Capisci che per noi non è stata una cosa facile; non avevamo nulla… Ora però è finito, e sono proprio contenta.
La signora Forestier s'era fermata.
- Mi dici che hai comprato una collana di diamanti per sostituire la mia?-
- Sì: non te n'eri accorta, vero? Era proprio identica.-
La signora Forestier, agitatissima, le afferrò le mani:
- Oh! mia povera Mathilde! Ma la mia era falsa. Poteva valere al massimo cinquecento franchi...-